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(recensione a “Su una gamba sola”, Oliver Sacks, Adelphi, Milano 1991).

Di Alberto Ferrari

Nel gennaio del 1984, Oliver Sacks sta per dare alle stampe il manoscritto del presente libro nel quale parla diffusamente dell’incidente che gli è occorso dieci anni prima, quando durante un trekking tra i fiordi norvegesi rovina a terra malamente procurandosi il distacco del tendine del muscolo quadricipite della gamba sinistra. In conseguenza dell’intervento chirurgico a cui fu sottoposto a Londra, dopo che il fratello medico gli aveva organizzato un rientro in patria d’urgenza, Sacks, all’inizio della lunga convalescenza, sperimentò la mancanza totale di sensibilità propriocettiva dell’arto rimesso in sesto, per altro in maniera eccellente, dal chirurgo. Con propriocezione s’intende la sensibilità e il controllo che abbiamo del corpo dall’interno. Grazie a questo “sesto senso” la nostra mente controlla ogni movimento di qualsiasi organo esterno, come, appunto, una gamba, in relazione a tutto il resto del corpo. Ebbene, a dieci anni di distanza da quella caduta, si legge nell’edizione del 1991 (quella da cui prende le mosse la traduzione del  libro in oggetto) in quella fredda mattina del 1984, Sacks cade di nuovo, a causa di una lastra di ghiaccio, procurandosi un altro distacco del tendine del quadricipite ma questa volta della gamba destra. Come da prassi nel 1984 è operato in anestesia locale e al risveglio dall’intervento, dopo che il curante gli dà l’ok, Sacks riprende a deambulare pian piano, poggiando la gamba ingessata a terra con normale cognizione di essa. La perdita della propriocezione questa volta non c’è stata,  non si è verificata. Dal che ebbe la prova di quanto aveva scritto e sperimentato dieci anni prima. E cioè che a causargli la perdita di sensibilità della gamba fu l’anestesia generale della quale il chirurgo londinese s’era servito. Com’era già arrivato a questa conclusione? Facendo quello che chi l’operò s’era rifiutato di fare: dando ascolto al se stesso paziente e al resto dei pazienti ortopedici con i quali s’era trovato a convivere durante la permanenza di un paio di mesi nell’istituto di riabilitazione situato ad Hampstead, Londra, luogo bene noto ai lettori del neurologo scrittore. Nella brughiera di Hampstead il giovane Sacks era di casa. Nei caratteristici laghetti era solito fare lunghe nuotate. Invece, da convalescente, andando in giro per l’ospedale con l’aiuto delle stampelle, ebbe modo di udire dagli altri ricoverati che quell’accidente di sensazione, la perdita della propriocezione – nel suo caso accompagnata da uno scotoma temporaneo che gli aveva oscurato parte del campo visivo sinistro, lo stesso lato della gamba offesa – era un disturbo che condivideva con altri pazienti. Con uno in particolare, un simpatico e combattivo vecchietto al quale era stata amputata la gamba sinistra per causa vascolare. Ebbene, quest’uomo aveva il problema opposto a quello di Sacks. Lui non aveva più la gamba ma aveva conservato intatta la propriocezione di essa. Era come se l’arto fosse ancora attaccato al suo inguine e, se non stava più che attento, rischiava di andare a spasso facendo leva su di essa, con il rischio di rovinare a terra come un salame. Confrontandosi sui rispettivi tipi d’intervento, saltò fuori che il vecchietto era stato operato in anestesia locale. Ecco cosa il vecchietto disse, accendendo la lampadina di Archimede nel suo interlocutore: «È lei la risposta! Quel che dovevano fare, prima di tagliarmi ‘sta gamba, era di anestetizzarla, tagliare i nervi, ingessarla, solo così avrei perso la sensazione di averla, come lei per la sua». Ed ecco la reazione di Sacks: «Rimasi folgorato da tanta lucidità: l’idea mi sembrò giusta, perfino brillante. Pensai di formularla in termini medici per lui, e di mandare un articolo a suo nome alla rivista “The Lancet”; l’articolo si sarebbe intitolato: “Semplice profilassi contro lo sviluppo dell’arto fantasma”».

Alla base di questa intuizione, il semplice ascolto e confronto con il paziente. Esattamente quello che l’altezzoso ortopedico inglese non fece. Siccome per costui, da un punto di vista chirurgico, l’intervento era perfettamente riuscito, il tendine del quadricipite era tornato nella sua sede, non c’erano altre questioni che potessero invertire la buona prognosi; ragion per cui le lamentele di quel paziente insistente, poco importava che fosse un collega, a riguardo dell’arto fantasma, non erano degne di approfondimento, neppure attraverso un consulto specialistico con un neurologo, che Sacks richiese invano, attraverso il di lui assistente, visto che il primario l’aveva snobbato con malcelata protervia. Fu questo atteggiamento di chiusura mentale che fece imbestialire Sacks, che tanto si è adoperato, durante tutta la sua carriera di medico, nel dare ascolto ai propri pazienti, traendone sempre importanti suggerimenti teorici e pratici per la propria scienza.

Stupisce se diciamo ch questo libro potrebbe essere preso ad esempio per rilevare l’importanza del punto di vista del paziente, a tacer d’altro per migliorare cura e profilassi della malattia? Così come che la critica mai pregiudiziale sul comportamento del collega chirurgo è contro l’atteggiamento esecrabile che il medico non dovrebbe mai adottare? Sicuramente no. Lo sa bene chi è al corrente che Oliver Sacks è considerato il padre nobile della Medicina Narrativa,  questa nuova branca della scienza medica, che ha fatto dell’arte di dare ascolto al paziente la propria vocazione.

 

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