(recensione a Vittorio Lingiardi, Diagnosi e destino, Einaudi 2018)
Di Alberto Ferrari
Di questi tempi difficili per la salute degli abitanti dell’intero pianeta, vale la pena di riconsiderare un libro che trae le mosse dell’ineluttabilità della diagnosi. Nel senso che, come ricorda l’autore, professore di psicologia dinamica all’università La Sapienza di Roma, psicanalista e saggista, tutti prima o poi dobbiamo ingoiare il rospo di una diagnosi. Dal morbillo all’infarto, dall’appendicite alla depressione, e adesso, se solo non facciamo i bravi stando a casa, all’innominabile che ha compiuto quello che si chiama uno spillover, ovvero un salto di specie, dall’animale all’uomo – uno spillover avvenuto in un wet market della Cina, come peraltro ha puntualmente preconizzato David Quammen nel suo libro omonimo, Spillover (già recensito su questo sito).
Lingiardi ci ricorda che, stando all’etimo della parola, diagnosi significa “conoscere per mezzo di, attraverso”. E quello che si vede per mezzo di e attraverso – in questo caso – sono i sintomi soggettivi riferiti dal paziente e oggettivi riscontrati dal curante. Entrambi. Sbaglia il medico che si basi soltanto sulle evidenze cliniche. Anche se il paziente è un ipocondriaco, il medico è tenuto a dare una risposta all’ansia dettata dalla malattia immaginaria. In che modo? non certo medicalizzando dei sintomi fasulli, ma instaurando un rapporto di fiducia nel quale il paziente si senta ascoltato per le preoccupazioni che esprime.
Che cosa accade nella psiche di un paziente davanti a una diagnosi? Ovviamente il tipo di malattia fa la differenza, ma non solo. Una vasta gamma di reazioni si materializzano in base al vissuto e alla personalità del soggetto. A detta del nostro esperto, la migliore delle risposte si manifesta quando il paziente, dopo un comprensibile momento di disorientamento, in cui prevalgono atteggiamenti di negazione oppure di rabbia e frustrazione, regredisce con la psiche al livello che la malattia gli impone. Diventa ragionevole, dando prova di sapersi adeguare alla novità, mettendosi sullo stesso piano della malattia, assecondandone il decorso, dopo che ha metabolizzato che durata e modalità della prognosi non vanno eluse. Al contrario c’è chi, meno lucido, insiste con un atteggiamento di rifiuto e magari entra in conflitto con il curante. Oppure incolpa la famiglia di averlo abbandonato o la società di averlo tradito ecc. Ecco perché, per Lingiardi, il compito del professionista non può essere solo quello di curare la sintomatologia clinica. Inoltre, nel grido di dolore del paziente incompreso spesso s’intravede una delle possibili soluzioni del problema. Per sintonizzarsi sulle giuste lunghezze d’onda, il medico è chiamato a regredire allo stato di paziente, facendo leva su quando lo stesso atteggiamento mentale l’ha sperimentato lui, la volte o le volte che gli sarà capitato di aver impersonato il ruolo di paziente. Il che, a ben vedere, è un modo per sentirsi umano tra gli umani. Insomma, la malattia in quanto tale ha un significato di elaborazione psicologica che il medico deve valorizzare, tirando in ballo i propri vissuti esperienziali di paziente per capirlo meglio. Secondo Jung, «solo il medico ferito guarisce» – ci ricorda puntualmente il professor Lingiardi. Inoltre, se il medico si fa paziente con i pazienti, è lecito che si apra il sipario dietro al quale sia consentito che il paziente faccia il medico di se stesso. Questo perché, oltre a essere d’aiuto per superare il momento critico, in molte delle autodiagnosi e in molti dei racconti dei pazienti si scorgono in filigrana gli spunti migliori per la cura.
Nel riconoscere l’importanza dell’implicazione psicologica della malattia, si parte dalle teorizzazioni della scrittrice americana Susan Sontag (1933-2004). Negli scritti in cui la Sontag rigetta ogni tipo di metafora a riguardo della malattia, per Lingiardi accade che costei, insieme all’acqua sporca della retorica belligerante, dove la sfida con il cancro o l’infarto diventano guerre da vincere, dicevamo che la Sontag, insieme all’acqua sporca di questo psicologismo sfinente e abusato, getti anche il bambino dell’immaginario psicologico necessario al paziente per elaborare la propria vita in funzione di ciò che la diagnosi gli va prospettando. Quello che è certo, ci ricorda infine Lingiardi, è che al cospetto della malattia il paziente scopre di avere un cospicuo credito nei confronti dell’esistenza. E la restituzione, quale che sarà, è possibile a partire dalla sublimazione psicologica.