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Può l’opera di un romanziere essere intimamente legata al cuore, non già come sede astratta di turbamenti e passioni sentimentali, cosa piuttosto normale in uno scrittore, ma come organo dal quale dipende la circolazione sanguigna? Stiamo per dire di sì, se al posto del cuore come muscolo che pompa ossigeno nelle cellule introduciamo il concetto di malattie cardiache, un terreno più adatto per la caratterizzazione dei personaggi, a causa delle paure, delle incertezze e delle sofferenze che queste malattie suscitano in chi le prova. Ebbene, uno scrittore che risponde a queste caratteristiche c’è ed è piuttosto famoso. Anzi, si tratta di un classico. È l’autore di un’opera monumentale suddivisa, sostanzialmente, in due filoni. Il primo filone è quello dei cosiddetti “romanzi duri”, in cui il Nostro cerca di mettere a nudo l’uomo nella sua essenza più intima, mettendosi sulle tracce dei suoi personaggi lungo i percorsi sentimentali, il contesto sociale in cui li scorgiamo vivere, amare, lavorare e viaggiare, nell’ultimo caso, assecondando la passione dell’autore per i posti esotici. Il secondo filone tratta gli stessi temi ma con una sapiente spolverata di noir in più, garantita dal tocco magistrale dell’eroe ricorrente degli oltre cento romanzi che lo vedono protagonista indiscusso: il commissario Maigret. Avrete capito che stiamo parlando di Georges Simenon.
Nei “romanzi duri” e, più nel dettaglio, in quelli di dichiarata trama autobiografica, scopriamo che il primo personaggio, in ordine cronologico, a essere affetto da malattia cardiaca è suo padre, Désirè Simenon. Désirè è affetto da angina, malattia a causa della quale il di lui carattere, già piuttosto mite e riservato, gli impedirà di farsi valere in ufficio e, in generale, in società, cosa che la moglie, più battagliera, gli rimprovera spesso. Del padre, Simenon parla diffusamente nel romanzo che ha per titolo “Pedigree”, nel quale cerca di ricostruire, a beneficio dei propri figli adolescenti, la famiglia e il contesto sociale di Liegi in Belgio dal quale proviene, avendovi vissuto fino verso i diciassette anni, allorché decide di tentare la fortuna come giornalista a Parigi. I toni nei confronti del padre sono accondiscendenti e riconoscenti. Non vi è mai una parola stonata nei confronti di quest’uomo dall’esistenza piatta. Piuttosto, nella vita di successo del figlio si legge sotto traccia il riscatto per quello che il proprio genitore non è stato. Dati i tempi e le vicissitudini che suo padre ha vissuto, malattia cardiaca compresa, non ha potuto essere all’altezza delle aspettative della moglie. Con la madre Simenon ingaggia un lungo corpo-a-corpo narrativo e sentimentale che dura fino alla fine delle rispettive esistenze. In “Memorie Intime”, scritte a quasi ottant’anni per riparare al lutto tremendo che l’ha appena colpito, la morte suicida della figlia più giovane, Simenon parla diffusamente anche di sua madre. La madre è il genitore che non l’ha mai veramente amato, perché, per via delle turbolenze subite in famiglia a causa di consanguinei alcolisti e malati mentali, la ragazza, ultima di tanti fratelli, non sarà in grado d’infondere amore profondo nei propri figli. Quello che non s’è ricevuto è difficile, se non impossibile, da restituire. La madre, a dire il vero, a tratti sembra diffidare della fortuna del figlio. Dagli sguardi torvi, dalle parole che si lascia sfuggire, sembra talora convinta che prima o poi il figlio verrà smascherato per quella specie di truffa della fama che ha architettato; allora tutti quei soldi che sembra abbia guadagnato, tutte quelle ville magnifiche dove ha abitato, tutte quelle auto di lusso che possiede li dovrà restituire e saldare il conto.
Per restare in tema, vale la pena ricordare da cosa il romanzo “Pedigree” prende le mosse. Il romanzo che molti considerano il libro più riuscito di Simenon, al punto che quando il premio Nobel Andrée Gide, allora consulente dell’editore Gallimard, ebbe i primi fogli fra le mani, non esitò a spronare il suo autore affinché trasformasse quegli appunti («materiali di prim’ordine!») in una trama ben congeniata. Accadeva che, all’inizio, Simenon vi si stesse dedicando per lo più come a un memoriale privato. Voleva lasciare qualcosa di sé ai propri figli spinto dal pungolo dell’urgenza. Tutta questa fretta perché un medico gli aveva appena diagnosticato il cuore ingrossato, a causa del quale all’esame obiettivo risultava nettamente brachicardico, anche se non aveva i classici sintomi di astenia, edemi periferici, aritmie e, ovviamente, angina. La paura di fare la fine di suo padre, scomparso prematuramente, lo stava spronando a scrivere della famiglia a Liegi, del coté piccolo borghese, della scuola dai preti, degli studenti a pensione, per decisione unilaterale della madre di subaffittare una parte della loro casa.
Siamo agli inizi degli anni Trenta del secolo sorso, quando l’editore Gallimard viene a conoscenza delle ragioni a causa delle quali il nuovo astro nascente della sua scuderia sta lavorando poco, lo mette in contatto con uno specialista. Dopo il consulto a Parigi, Simenon è raggiante. Ha appreso che il suo cuore non è ingrossato ma è sano e robusto. Pertanto, la bradicardia dalla quale è affetto non ha nulla di patologico. Anzi. È piuttosto il modo di reagire di un cuore forte, capace di sopportare ogni sforzo. Quello che si dice un cuore d’atleta.

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