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Nella nostra ultima chiacchierata avevo fissato l’attenzione sugli effetti sul cuore dell’attività sportiva agonistica. Oggi vorrei prendere in considerazione un contesto che definirei speculare: l’esercizio fisico nei malati di cuore.
Fino a tempi relativamente recenti, diciamo una sessantina d’anni fa, la sola idea di proporre un programma di esercizio fisico nei cardiopatici sarebbe parsa una follia: a chi avesse subito un infarto, come pure ai pazienti con malattie delle valvole cardiache, o alle persone con scompenso cardiaco, si prescriveva un regime di vita “tra letto e poltrona”, che appariva l’unico praticabile, non fosse altro che perché tra i sintomi più comuni delle malattie di cuore c’è la dispnea, cioè l’affanno: chi è affannato istintivamente si mette a riposo, e anche i medici non se la sentivano di proporre ai propri pazienti sforzi che consideravano potenzialmente pericolosi.
Poi, a partire dagli anni ’60 del secolo scorso, sulla scia della nascita delle Unità Coronariche, che migliorarono sensibilmente la sopravvivenza dopo un infarto miocardico, si cominciò a pensare che i pazienti dimessi da tali strutture potessero giovarsi di programmi di riabilitazione fisica, naturalmente condotta con prudenza e gradualità: nacque il concetto di riabilitazione cardiologica, basata essenzialmente su semplici esercizi di ricondizionamento fisico.
Successivamente, al volgere del secolo (o, se preferite, del millennio), si è cominciato a parlare non più di riabilitazione cardiologica ma di cardiologia riabilitativa. Come diceva un famoso tormentone televisivo “le parole sono importanti”: il ribaltamento dell’espressione non è un giochino linguistico ma vuole sottolineare che si tratta proprio di una branca della cardiologia, di un’arma terapeutica formidabile, accanto alle più tradizionali terapie con farmaci o con interventi chirurgici o comunque invasivi (operazioni a cuore aperto, angioplastica, impianto di pacemaker o defibrillatori).

E la cardiologia riabilitativa non consiste esclusivamente in un programma più o meno personalizzato di esercizio fisico, ma prevede interventi articolati e complessi per i quali si avvale del contributo di un team riabilitativo multidisciplinare che comprende vari medici specialisti (naturalmente il cardiologo, ma anche l’internista, il diabetologo, il geriatra, lo pneumologo, il nefrologo, il cardiochirurgo, il  fisiatra, l’infettivologo…), e molti altri professionisti della salute:  infermiere, fisioterapista, dietista, psicologo, assistente sociale, farmacista; anche le associazioni di pazienti e “caregiver” hanno un ruolo assai importante nel motivare e sostenere l’impegno riabilitativo.
Possono usufruire della cardiologia riabilitativa i pazienti che abbiano subito un infarto miocardico, quelli reduci da interventi chirurgici a cuore aperto, da trapianto cardiaco o da procedure come stent delle coronarie o inserimento di valvole per via endovascolare, quelli con scompenso cardiaco. Ormai è dimostrato che programmi ben condotti non soltanto migliorano la qualità di vita dei pazienti, ma proprio prolungano la vita, e riducono sensibilmente il numero di riospedalizzazioni. Addirittura, sulla base dei risultati di numerosi studi clinici, il non avviare un paziente cardiopatico dopo un evento acuto ad un programma di riabilitazione adeguato equivale ad un “sotto-trattamento”, a esporlo cioè ad un rischio di morte e riospedalizzazione aumentato sino al 30-40 %.
Purtroppo però in Italia attualmente solo un paziente su tre di quelli dimessi dopo un infarto o un intervento cardio-chirurgico viene avviato ad un percorso di cardiologia riabilitativa.
Perché? In parte, è ovvio, per la limitatezza delle risorse disponibili. Sono meno di 250 (in media di 1 ogni 270 mila abitanti) le strutture di cardiologia riabilitativa e preventiva sparse per tutta Italia, peraltro in maniera non uniforme (più presenti al Nord).
Ma non bisogna dimenticare anche la mentalità dei pazienti e perfino degli stessi operatori sanitari: manca ancora la cultura della riabilitazione cardiologica, e non pochi medici di famiglia e persino alcuni specialisti cardiologi, continuano a considerare l’approccio riabilitativo come un perfezionamento non necessario del percorso di cura. Invece si tratta proprio di un cambio di mentalità: dalla dimissione protetta alla continuità assistenziale.
Le sfide del prossimo futuro per la cardiologia riabilitativa sono dunque di due ordini: prima di tutto, quello organizzativo e gestionale, che mira alla costruzione di nuove strutture, o anche alla riconversione di alcune vecchie, da destinare a trattamenti in regime di ricovero o ambulatoriale, anche in considerazione dell’invecchiamento della popolazione, dunque del verosimile incremento, nei prossimi anni, dell’incidenza e della prevalenza di tutte le patologie direttamente o indirettamente collegate all’avanzare dell’età, prima fra tutte lo scompenso cardiaco. C’è poi l’aspetto culturale ed educativo di pazienti ed operatori sanitari.
Secondo un ampio studio, condotto su oltre 370mila soggetti, addirittura il 57% dei pazienti, nei due anni che fanno seguito a un infarto, abbandona le terapie. L’inserimento in un programma di cardiologia riabilitativa sicuramente sarebbe uno strumento utile a migliorare anche l’aderenza ai trattamenti necessari.

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