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Per studiare lo stato di salute di un cervello che ha subito un ictus o un’altra lesione cerebrale, i neurologi ricorrono al metodo classico di analisi dei substrati neuronali, misurano cioè le capacità residue che il paziente manifesta nel costruire delle proposizioni verbali. In questo modo chiariscono fino a che punto il paziente è ancora in grado di servirsi della parola per fare dei ragionamenti. Se il paziente è sordomuto, l’approccio non cambia. Dalla fine degli anni Settanta, chi ha studiato il linguaggio dei segni sa che quest’ultimo macina significati, è in grado di compiere ardite astrazioni concettuali, può riferirsi al mondo fenomenologico con una precisione che sconfina nella pedanteria perché è sorretto dalla stessa visione sintattica e grammaticale del linguaggio. Prova ne è che, in caso di deficit cerebrali, è la stessa area del cervello che ne esce malconcia, l’emisfero sinistro, sede delle competenze sintattiche e proposizionali tanto nei sordi quanto nei parlanti.
A raccontarci delle enormi potenzialità lessicali e sintattiche della lingua dei segni, dichiarandosene fortemente affascinato, è Oliver Sacks, uno dei neurologi più famosi della storia recente, di sicuro il più dotato stilisticamente, giacché il suo saggio “Vedere Voci”, recentemente riproposto in Italia dall’editore Adelphi (la precedente edizione risale al 1991, che segue l’originale in lingua inglese del 1989) trasmette la passione di un romanzo corale, dove la pluralità delle esperienze ivi raccontate sono i tasselli di un puzzle concettuale in cui l’approccio teorico e l’esperienza clinica s’incastrano senza soluzione di continuità. Sacks, al solito, parla di cose che conosce per averne avuto esperienza diretta; da neurologo ha avuto in cura pazienti sordomuti. Per meglio capire la loro condizione di partenza, s’è tuffato a capo fitto nel mondo della sordità, teorica e reale. Non è un caso ma il frutto del suo impegno militante, se Sacks nel 1988 si trova all’università Gallaudet per sordomuti con sede a Washington D.C., durante le proteste che sfociano in quella che viene ricordata come l’affermazione più importante della storia recente per la causa dei sordomuti. Oltre a ottenere, per la prima in quella istituzione scolastica, che il rettore fosse un membro della comunità sordomuta, un sordo dall’età di 21 anni, la lingua dei segni si afferma come patrimonio culturale identitario della minoranza dei sordi. Il che non è poco, visto che, a partire dagli anni Sessanta, sulla spinta di idee di orgoglio e liberazione che volevano affrancare le minoranze dai ghetti, favorendo un’istruzione comune per tutti, di fatto i sordomuti sono costretti a adattarsi alla lingua parlata. Ma ai sordi apprendere la lingua parlata costa molti più sforzi e dà risultati assai più modesti rispetto a quanto avviene con l’apprendimento spontaneo della lingua dei segni, a patto che vi sia qualcuno che gliela insegni. Ma perché tanta importanza per la lingua dei segni, se poi, nel mondo reale, per sopravvivere nella società dei parlanti, il sordomuto deve adattarsi alla lingua vocale nella versione segnata, dopo aver appreso anche quella scritta e, dove possibile, quella parlata? Per il semplice fatto – ci ricorda Sacks – che l’immersione in un sistema linguistico complesso che sia alla nostra portata cognitiva a partire da quando, bambini, cominciamo a emettere i primi vagiti, configura un processo cognitivo imprescindibile per lo sviluppo del cervello umano. In passato, i bambini sordomuti erano considerati dei poveri di spirito e venivano internati in istituti per lungodegenti cronici, causa le enormi difficoltà di adattamento che riscontravano in società, essendo costretti a confrontarsi soltanto con la lingua parlata, che non capivano. Sacks a tale proposito ci parla di Joseph, un bambino sordomuto, sua conoscenza, che non ha avuto la possibilità di sviluppare per tempo la lingua dei segni, anche perché non essendo figlio di genitori sordi, per lui il transfert segnico in famiglia non è avvenuto e, per questa ragione, Joseph ha avuto uno sviluppo cerebrale molto più lento e deficitario di altri bambini sordi che invece hanno appreso la lingua dei segni in famiglia o nelle scuole convitto, quando l’immersione nella lingua dei segni era un dato di fatto. Un caso, quello di Joseph, che ha radici profonde anche nella leggenda, come ci ricorda Sacks quando parla del faraone egizio che volle come nutrici dei suoi gemelli due donne sordomute. Non essendovi qualcuno che potesse indirizzare i ragazzi a una data lingua, il faraone voleva vedere quale lingua i ragazzi avrebbero adottato spontaneamente. Se queste sono le condizioni di partenza, nessuna lingua è possibile, assicura Sacks. Senza un contesto sociale che agisca da modello, non attecchisce nessuna lingua.  Senonché le due nutrici conoscevano il linguaggio dei segni. Fu così che i ragazzi crebbero senza avere appreso nessuna lingua parlata ma, fatto probabilmente senza importanza per il loro tronfio genitore con il pallino per l’eugenetica, erano in grado di segnare, così come avevano loro insegnato, all’insaputa l’una dall’altra, le due nutrici.

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