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A parere dell’Organizzazione mondiale della Sanità (OMS), alla base dell’inattività fisica e dei costi che si pagano in termini di salute e di prestazioni sanitarie, si va ben oltre la responsabilità individuale. Non è colpa del singolo individuo se in certi contesti sociali fare sport o anche solo attività fisica moderata con regolarità è una prassi sconosciuta. In Brasile, per esempio, il 48,2% degli adulti di età pari o superiore a 18 anni che risiedono nelle capitali degli Stati federali non è sufficientemente attivo. Si tratta di una prevalenza superiore a quella del continente americano (39,3%) e del mondo (27,5%). Non sono i brasiliani inurbati a San Paolo o a Rio de Janeiro a essere più ottusi degli altri, ma sono le discriminanti sociali che agiscono per loro. Esseri poveri e vivere alla periferia di queste capitali da milioni di abitanti significa essere condannati a sviluppare le malattie della povertà. Significa ammalarsi di diabete e obesità in età giovanile per poi diventare dei pazienti cardiovascolari di mezz’età, quando non pazienti oncologici tout court per il cancro al colon, al fegato e in altri distretti del tratto digerente che sono particolarmente sensibili all’inattività fisica (e a una dieta squilibrata). Ecco perché, a parere dell’OMS, in uno scenario come quello brasiliano sono necessarie azioni governative per aumentare i livelli di attività fisica e, di conseguenza, «ridurre i costi sociali e gli impatti negativi sui sistemi sanitari, sull’ambiente, sullo sviluppo economico, sul benessere e sulla qualità della vita della popolazione». L’esperienza insegna che se l’attività fisica rientra nell’assistenza sanitaria primaria, può contribuire alla risoluzione dei problemi di salute della popolazione. Non solo, se fai attività fisica guarisci prima e meglio. Sempre a parere dell’OMS, in una dichiarazione in cui pubblicizza un panel mondiale dedicato a questi problemi (la Prima conferenza mondiale per la promozione dell’attività fisica per la salute), viene spiegato che fare movimento, cioè essere fisicamente attivi, è un’azione cruciale per le esigenze di diagnosi, cura, recupero, riabilitazione, prevenzione e promozione della salute. Vale a dire, è una componente essenziale per l’integralità delle cure. In questo senso, investire in azioni di attività fisica «all’interno dei sistemi sanitari, è strategico per la promozione della salute e la prevenzione delle malattie non trasmissibili, riducendo di conseguenza i costi sanitari».
È curioso che, secondo l’epica del calcio, molti dei campioni brasiliani provengono dalle favelas e hanno iniziato a palleggiare con i palloni di stracci, mentre le statistiche accurate di cui sopra indicano che quasi la metà della popolazione attiva ivi residente sta avendo serie ripercussioni sulla salute a causa della scarsa o nulla attività fisica praticata. Com’è noto le eccezioni hanno ben poco da spartire con la regola, che in queste caso sta suggerendo al Ministero della Salute brasiliano, d’accordo con l’OMS e con altri organismi internazionali di difesa e promozione della salute, di correre ai ripari per inserire l’attività fisica tra i canoni primari della salute, gli stessi che alla fine degli anni Settanta sono stati definiti alla conferenza di Alma Ata nell’ex Unione Sovietica. La conferenza fu organizzata dall’OMS, dall’Organizzazione panamericana della salute, dall’UNICEF e patrocinata dall’allor URSS. Ad Alma Ata si era sottolineato per la prima volta che la salute aveva bisogno di un’attenzione primaria, essendo alla base della prosperità delle popolazioni. Il motto della dichiarazione di Alma Ata fu: “Salute per tutti entro il 2000”. A oltre vent’anni dal termine considerato un traguardo temporale per la finalità di quell’obiettivo, siamo ancora qui a prendere il toro per le corna. Ovvero, siamo ancora nel bel mezzo dell’emergenza salute.
La regola secondo cui l’esercizio fisico può essere considerato una medicina non è nuova. Nella cultura occidentale la medicina coincide con la malattia dal principio del ventesimo secolo. Prima di allora la maggior parte dei doveri del medico coincidevano con la conservazione e la promozione della salute e con la prevenzione delle malattie. In questo contesto i medici enfatizzavano l’importanza degli esercizi fisici e della dieta fino a codificarne delle regole ferree. Dare enfasi alla salute anziché alla malattia è quello che hanno fatto i due primi medici del mondo antico: Ippocrate (460-370 B.C.) e Galeno (129-210 A.D.) Fu Ippocrate a prescrivere che l’uomo, per mantenersi in salute, non deve solo mangiare secondo certe regole ferree (regime), ma deve anche fare esercizio fisico, dato che il buon cibo e l’esercizio fisico producono salute. Galeno, che ha preso a prestito molto da Ippocrate, in un suo significativo contributo sulla teoria della medicina sostiene che la pratica medica deve ruotare intorno a quello che è “naturale” (fisiologico, secondo natura) e a quello che, all’opposto, è “non naturale” (tutto ciò che non è innato) per difendersi da quello che è “contro-natura” (la sfera della patologia).
Che fare attività fisica contribuisca al benessere psico-fisico dell’individuo l’avevano già capito i padri fondatori della medicina moderna. Che vincere la povertà sia il modo migliore per incrementare l’attività fisica e di conseguenza il benessere e la salute della popolazione è invece una lezione che ci deriva da un’osservazione epidemiologica globale. È il frutto della ricerca scientifica dalla quale è bene non derogare mai.

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