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di Alberto Ferrari
La persona bilingue è avvantaggiata contro le malattie vascolari del cervello, sebbene le abilità linguistiche da sole non bastino a prevenire l’ictus, che in Italia è la terza (la seconda, stando ad alcune stime) causa di morte dopo le malattie cardiache e le neoplasie, e che rappresenta la principale causa d’invalidità. Rispetto a chi conosce una lingua sola, chi parla più lingue ha il doppio di probabilità di cavarsela degnamente a seguito di un ricovero per ictus

La notizia è di qualche mese fa. Essere bilingui è un ottimo esercizio per il cervello, al punto che, in caso di ictus, certe funzioni cognitive di base, come le capacità di concentrazione e di attenzione, recuperano più facilmente. Non solo, l’abitudine di una certa area del cervello di passare da un sistema linguistico all’altro faciliterebbe il ripristino dell’usuale percezione di sé e del proprio corpo rispetto agli oggetti e al mondo esterno spazzate via dall’ictus. Al punto che, dando retta allo studio che per primo ha analizzato il problema del bilinguismo nei pazienti colpiti da ictus, la percentuale dei pazienti con le funzioni cognitive intatte nel post ictus è più che doppia nei bilingui rispetto ai monolingui.

Ma cosa significa essere bilingui? ‹‹Per quanto riguarda la definizione di bilinguismo – ci spiega Elena Favilla, linguista del Dipartimento di Educazione e Scienze Umane dell’università di Modena e Reggio Emilia e membro dell’Associazione italiana di linguistica applicata – i problemi riguardano la difficoltà di definire con esattezza che cosa significa conoscere una lingua e quale tipo di competenza è ritenuta necessaria nelle due lingue. Solitamente, si fa riferimento al grado di padronanza nelle due lingue o all’età di acquisizione della seconda lingua. Semplificando un pò, il grado di padronanza può variare lungo una gamma che va dall’essere parlante nativo in entrambe le lingue e senza interferenze tra le due lingue all’avere una padronanza asimmetrica delle lingue, distinta per produzione/comprensione o per ambiti d’uso e argomenti. Rispetto all’età di acquisizione, invece, si individuano delle differenze se entrambe le lingue sono state apprese fin dalla nascita, se la seconda è stata appresa da bambini successivamente all’acquisizione della prima o se, ancora, la seconda lingua è stata appresa da adolescenti o da adulti››.

Tornando al nostro studio, il fenomeno del bilinguismo in rapporto all’ictus è stato studiato sul campo, facendo sì che la coorte di pazienti fosse il più possibile omogenea, di modo che le differenze sociali ed etniche dei soggetti analizzati fossero ridotte al minimo. Per questo motivo lo studio in questione si è concentrato su un gruppo di 608 pazienti ricoverati all’interno dello stesso centro specializzato nella riabilitazione dell’ictus che sorge a Hyderabad, nello stato dell’Andhra Pradesh, in India. In questa città cosmopolita, che conta più di tre milioni di abitanti, ‹‹una percentuale significativa può essere considerata plurilingue – ci racconta Suvarna Alladi, prima autrice, che aggiunge – Infatti, molti dei residenti parlano correntemente tre o più lingue: il Telugu, parlato dal gruppo maggioritario degli Indù, il Dakkini, la lingua del gruppo minoritario di religione musulmana; entrambe queste lingue sono parlate dalla popolazione originaria, presente nella regione da centinaia di anni. L’inglese è diventato gradualmente la lingua della burocrazia e dei media. Infine, ad Hyderabad si parla l’Hindi, la lingua ufficiale della nazione, insegnato a scuola al pari dell’inglese. Perciò molte persone ad Hyderabad usano Telugu e Dakkini in contesti informali, inglese e Hindi in quelli formali››

Dall’indagine, condotta per un periodo di tempo compreso fra i 3 e 24 mesi, è emerso che oltre il 40% dei pazienti bilingui ha mantenuto intatte le normali capacità cognitive, contro il 19,6% dei monolingui.

Tuttavia, quello che il bilinguismo non è in grado di fare è prevenire l’ictus, di fronte al quale monolingui e bilingui concorrono ad armi pari. Inoltre, essere bilingui, sempre secondo i ricercatori indiani e inglesi che hanno messo mano allo studio pubblicato sulla rivista «Stroke», non produce performance migliori rispetto ai monolingui su altre abilità cerebrali che pure, a prima vista, sembrerebbero strettamente connesse alle abilità linguistiche che contraddistinguono chi è almeno bilingue, tipo avere una memoria più reattiva e parlare con più fluidità e più appropriatezza lessicale, a dimostrazione che il danno al cervello in caso di ictus rimane altamente invalidante per tutti. Non solo, anche i pazienti affetti da demenza vascolare sia lieve che manifesta in conseguenza all’ictus non hanno avuto particolari giovamenti dall’essere bilingui (il 77,7% di costoro è risultato monolingue e il 49% bilingue). Nessuna differenza anche nella frequenza dell’afasia (11,8% dei monolingui e 10,5% dei bilingui) che rimane uno dei sintomi più gravi in caso di ictus.

Per sapere che cosa accade esattamente nel nostro cervello quando passiamo da una lingua all’altra, abbiamo chiesto lumi a Elisabetta Menna, biologa, ricercatrice dell’Istituto di Neuroscienze del CNR e dell’Istituto Clinico Humanitas di Rozzano. ‹‹Il nostro cervello e i neuroni che ne fanno parte sono estremamente “plastici” ovvero “flessibili” cioè sono in grado di andare incontro a modificazioni e cambiamenti sia funzionali (cioè del modo di operare) sia strutturali (cambiamenti morfologici). Tra questi cambiamenti si annoverano cambiamenti di funzionamento e di efficacia delle sinapsi (i punti di contratto tra neuroni e dove avviene il trasferimento dell’informazione nervosa), ma anche nascita e perdita di sinapsi, nascita e perdita di neuroni. È stato dimostrato che a livello dell’ippocampo (una regione del cervello molto importante per la formazione di nuovi ricordi) si ha una neurogenesi continua e che questi neuroni di nuova formazione sono proprio i depositari dei nuovi ricordi. Quindi è proprio così che accade nel nostro cervello quando facciamo esperienze o impariamo nuove cose: le sinapsi esistenti possono modificarsi, nuove sinapsi possono nascere altre possono essere eliminate, come le foglie che formano la chioma di un albero››. Questa preziosa capacità del cervello, la plasticità, trae beneficio da un continuo allenamento. Ecco perché molti studi hanno evidenziato che mantenere il cervello in attività sia di fondamentale importanza, per allenare i circuiti e le potenzialità, per arricchire la “riserva cognitiva” che gioca un ruolo cruciale nella resistenza al normale declino cerebrale di ogni invecchiamento, anche non patologico. ‹‹In caso di patologia – ci spiega la biologa appassionata dei meccanismi del cervello – allenare la mente non è sufficiente ad arrestare la progressione della malattia, però costituisce una risorsa preziosa››.

Sappiamo che il compianto Umberto Eco, che di sicuro sul cervello ha sempre voce in capitolo, era uno strenuo fautore degli esercizi utili a contrastare l’invecchiamento cognitivo. A questo scopo praticava per sé e suggeriva agli amici di mantenersi in constante allenamento, ricorrendo a prove mnemoniche, come imparare strofe di poesie a memoria, oppure si cimentava con prove di abilità deduttiva. Personalmente, ha dichiarato più volte, aveva un debole per “La Ghigliottina” del Quiz televisivo “L’Eredità” presentato da Carlo Conti, in cui bisogna individuare una parola da alcuni indizi lessicali. Gli uni e gli altri sono processi mentali molto diversi dal bilinguismo? ‹‹Non penso che siano tanto diversi – commenta la dottoressa Menna – perché anche queste sono attività strutturate che necessitano di concentrazione, e attivano i processi con cui si richiamano conoscenze acquisite in precedenza, costituendo quindi un esercizio importante per la memoria››.

Probabilmente, per gli autori dello studio sul bilinguismo era più facile identificare i soggetti da includere  utilizzando un criterio semplice, come quello della conoscenza della seconda lingua, piuttosto che tentare di quantificare in maniera oggettiva la quantità di attività “mentale o cognitiva” di un individuo. ‹‹Per chiarezza vorrei distinguere queste attività cognitive (memoria e apprendimento a lungo termine) – aggiunge la dottoressa Menna – dalla cosiddetta memoria di lavoro, anch’essa basata nell’ippocampo, anch’essa di fondamentale importanza: si tratta di quella memoria che permette di digitare un numero di telefono appena visualizzato. In buona sostanza, il professor Eco aveva assolutamente ragione››.

‹‹Riguardo alle abilità cognitive dei soggetti bilingui e alla maggiore resistenza in caso di patologie neurodegenerative – ci racconta la linguista, la dottoressa Favilla – sono state svolte varie ricerche, ormai da vari anni, anche se non si è arrivati a conclusioni certe né sui dati né sulle ragioni delle possibili maggiori abilità soprattutto nel recupero e nella “resistenza” in caso di patologie neurodegenerative (purtroppo, la resistenza non renderebbe immuni alla patologia, ma renderebbe più in grado di continuare a svolgere determinati compiti che richiedono abilità cognitive, tra cui l’uso del linguaggio, anche in fasi più avanzate della malattia). In parte questo aspetto è collegato al problema di come nel cervello dei bilingui è organizzata e funziona l’elaborazione linguistica delle due lingue; semplificando molto, credo che si possa dire che le teorie più convincenti sostengono che la maggiore resistenza sia legata allo sviluppo di vie di elaborazione neurali alternative››.

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