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di Alberto Ferrari

Da un’indagine statunitense la segnalazione che fumare marijuana può diventare una serio pericolo di morte a causa dell’innalzamento della pressione arteriosa. Il dato conferma una tendenza nota da tempo, tuttavia alcuni ragionevoli distinguo permettono di minimizzare la portata del rischio. Il che non vuol dire che si può consumare cannabis come fosse acqua fresca. Facciamo chiarezza in vista della legge che dovrebbe liberalizzare la marijuana anche in Italia

Agosto forse non è il mese più adatto per entrare nel merito di questioni dalle forti tinte ideologiche, tanto più se il terreno della disputa è la salute. Difficile che nel periodo delle ferie, in cui tutti ci sentiamo incoraggiati a osare di più con Bacco, tabacco e Venere, la discussione sugli effetti della marijuana sulla mortalità cardio e cerebrovascolare possa bucare lo schermo. Nessuno dei due schieramenti pro e contro il DDL con il quale, anche nel nostro Paese, si dovrebbe legalizzare entro breve l’uso della cannabis per fini ricreativi, che abbia cavalcato la notizia secondo la quale, stando al solito studio americano, fra i fumatori abituali di marijuana il tasso di mortalità per crisi ipertensiva è tre volte maggiore che nei non-users. Eppure, a metà agosto, i giornali hanno dato la notizia alla lettera, con accenti più accesi da parte di quelli di centro-destra, lo schieramento contrario alla nuova legge. Visto che ormai ci avviciniamo a settembre, a detta del poeta il mese dei ripensamenti, proviamo a riannodare la questione nella speranza che l’auspicabile dibattito sulla normativa a venire valuti con la dovuta serenità la ricaduta che questa sostanza psicotropa ha sulla salute.

Cominciamo dallo studio in oggetto. Si tratta di un’indagine retrospettiva che ha estrapolato quanti, fra i giovani di 20 o più anni d’età che hanno risposto a un questionario sul rapporto con la marijuana, sono deceduti per cause naturali sei anni dopo. Dall’incrocio dei dati è risultato che degli originari 1213 partecipanti al sondaggio, condotto nel biennio 2005-06, 332 sono morti nel 2011. È tanto, è poco il 27 % di decessi? Lo studio, messo a segno dall’università dello Stato della Georgia, con sede ad Atlanta (USA) e apparso a luglio su «Preventive Cardiology», non dà un giudizio di merito. Si limita a osservare che, mentre le morti per infarto e ictus non registrano oscillazioni fra users e non-users, quelle dovute a crisi ipertensive sì, essendo più che triplicate fra gli users.

Ora, se è vero che la crisi ipertensiva può benissimo sfociare in un infarto, a causa di una spinta pressoria troppo elevata sulle pareti delle coronarie, o in un ictus, dopo aver scatenato un’emorragia cerebrale, è altrettanto vero che essa colpisce anche altri organi vitali. Per esempio i reni, dando vita a un’insufficienza renale, oppure i polmoni, dopo aver provocato un edema polmonare, oppure l’intestino, se a dissecarsi è l’arteria aortica nel tratto addominale. In generale, durante una crisi ipertensiva la pressione sanguigna esercitata sui vasi è così alta che può sfiancarli e romperli nei punti in cui questi dovessero mostrare segni di maggior debolezza, mettendo a serio rischio la vita del soggetto.

Questo focus sull’ipertensione non è casuale, anzi, trattandosi di marijuana è perfino un po’ scontato. Tra le poche certezze sugli effetti collaterali della cannabis, vi sarebbe un leggero aumento dei valori pressori e talora, subito dopo averla fumata, una possibile ipotensione ortostatica (la pressione si abbassa durante il gesto di assumere la postura eretta) che può causare perdita dell’equilibrio e svenimenti. Un altro effetto certo è l’aumento della frequenza cardiaca dal 20-100% nelle due ore che seguono l’aver fumato la sostanza. Sì, perché l’erba per uso ricreativo sostanzialmente si fuma, da cui, a detta dei detrattori, ecco l’allignarsi di tutti i pericoli, cardiovascolari e oncologici, per la salute. Il fumo in quanto tale, per l’azione combinata della nicotina e del principio attivo della sostanza, il THC, può irrigidire le arterie e favorire la formazione della placca arteriosclerotica, mentre sul versante tumorale, può causare il cancro ai polmoni e degli organi superiori del tratto aero-digestivo: bocca, lingua, esofago. Il che sarebbe vero se il numero di spinelli quotidiani fosse molto elevato, pari almeno al numero di sigarette fumate da un normale fumatore. La verità però è ben diversa. In un cosiddetto joint il quantitativo di tabacco è minimo. A detta di chi ne fa uso, una sigaretta può bastare per preparare fino a quattro “canne”. E quattro canne c’è chi se le fuma in un giorno e chi in un mese, per cui è difficile tirare le somme da questi numeri.

Oppure si può ricorrere all’alternativa di Amsterdam. In Olanda l’uso delle droghe leggere (marijuana e hashish) è liberalizzato da tempo. Nei coffee shop la marijuana si può fumare ricorrendo a strumenti molto simili alla sigaretta elettronica, assolutamente privi di tabacco. Probabilmente è per la scarsa presenza di nicotina negli spinelli che Umberto Veronesi aveva dato il suo parere favorevole di oncologo alla liberalizzazione della marijuana. Anzi, i danni per la salute nel suo complesso li reputava «sostanzialmente trascurabili». Una conclusione a cui era giunto nel 2000, quando da ministro della salute aveva incaricato una commissione di esperti affinché valutasse i pro e i contro. Grazie a queste conclusioni, Veronesi s’era detto favorevole alla liberazione della marijuana, alle depenalizzazione del reato che punisce il consumo (legge Fini-Giovanardi) e alla possibilità di coltivarla in proprio, per allontanare i consumatori dalla droga che spaccia la criminalità organizzata. Diciamo che la posizione di Veronesi non rappresenta una voce isolata. Se in tutto il mondo ci sono Stati come la California e l’Uruguay che hanno liberalizzato l’uso ricreativo della cannabis e altri, come l’Italia, che stanno per farlo, è perché l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) si è espressa a più riprese favorevolmente a questo riguardo.

Senza contare che se è lo Stato che fornisce il prodotto, può controllare che non succeda quello che avviene abitualmente per mano criminale, e cioè che pur di aumentare il principio attivo che assicura lo sballo, la marijuana illegale è spesso tagliata chimicamente, tant’è che può contenere ogni tipo di sostanza: dal piombo all’alluminio, dal ferro al cromo, dal cobalto ad altri metalli pesanti, tutti altamente nocivi.

L’analisi condotta dai ricercatori americani ha però il pregio di non tracimare dagli effetti cardiovascolari. Meglio un campo d’indagine circoscritto che un’ampia sventagliata di ipotesi, tanto più se il riscontro viene fatto a posteriori, come nel caso dello studio in questione, e non in base a un’indagine longitudinale, in cui i pazienti vengono seguiti clinicamente nel tempo. A proposito dei limiti procedurali dello studio apparso su «Preventive Cardiology», gli autori ammettono che il campione potrebbe non essere tanto rappresentativo. Il perché è presto detto. Essi hanno considerato users coloro i quali hanno dichiarato, ai tempi del questionario, di aver fatto almeno un uso saltuario di marijuana, e non-users coloro i quali hanno dichiarato il contrario, senza che gli autori abbiamo avuto la possibilità di verificare cosa sia successo durante i sei anni di mezzo. In questo tempo i partecipanti potrebbero avere cambiato radicalmente le loro abitudini. Alcuni che ancora non fumavano marijuana potrebbero avere cominciato a farlo, e viceversa, ovviamente.

Inutile precisare che le considerazioni benevole a favore del consumo ricreativo di marijuana sono da prendere con le pinze per i soggetti con pregressa malattia cardiovascolare. L’aumento della pressione arteriosa, l’ipotensione ortostatica e l’innalzamento della frequenza cardiaca a seguito dell’iperattività del sistema nervoso simpatico, quello che presiede ai gesti meccanici e istintivi, possono rappresentare una seria fonte di pericolo in chi fosse in prevenzione secondaria per questioni di cuore o di arterie.

Così come l’abuso della sostanza non mette al riparo da effetti collaterali di grave, talora di gravissima entità. Ma questa considerazione ovviamente vale per qualunque sostanza che non sia acqua fresca. Forse che l’abuso di alcol e dei cibi ricchi di colesterolo non rappresentano un serio pericolo per la salute delle nostre arterie? E siccome la marijuana è una sostanza psicotropa, cioè ha il potere di agire attivamente sulla psiche e sul corpo delle persone, catturata da due tipi di recettori, il primo (CB1) attivo nel cuore e nel cervello, nel fegato e nelle cellule dei vasi sanguigni, il secondo (CB2) nelle cellule del sistema immunitario, è sicuramente un bene non eccedere nel consumo.

A questo proposito l’OMS che pure ha dato il via libera all’uso della sostanza per scopi ricreativi, oltre che sanitari, ha accolto, tra gli altri, la pubblicazione di un vademecum il cui titolo, quantunque liberamente tradotto, è tutto un programma: “Le conseguenze sociali e sulla salute dell’uso ricreativo della cannabis” (“The Health and social effects of nonmedical cannabis use”). Scopriamo così che la dipendenza da cannabis esiste e interessa un insieme di fenomeni che vanno a incidere pesantemente sul comportamento, lo stato cognitivo e quello fisiologico del consumatore. Per essere addicted di cannabis è sufficiente manifestare almeno tre di queste condizioni: un forte desiderio finalizzato al consumo, difficoltà ad arginare i limiti del dosaggio, stato fisiologico di astinenza dal momento che si dovesse sospendere l’assunzione, limiti di tolleranza variabili, in base ai quali si tende ad aumentare la dose per garantirsi gli effetti psicotropi a cui si è abituati, progressivo disinteresse per altre forme di piacere, bisogno di continuare a farsi anche al cospetto di inequivocabili sintomi di malessere fisico dovuti alla sostanza.

La conclusione non può che essere che, in caso di consumo, la moderazione sia da preferire. Proprio come facciamo con l’alcol e con le altre sostanze potenzialmente dannose che fanno parte della vita di tutti i giorni.

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