(L’équipe della cardiologia interventistica Ospedale Cardinal Massaia di Asti, prima in Italia a praticare l’ipnosi durante l’istallazione di defibrillatori e pace maker)
26-03-2020
Di Alberto Ferrari
L’ipnosi non solo è una metodica ad uso di alcuni psicoterapeuti e psicanalisti per far regredire il paziente fino alle origini del trauma, ma anche uno strumento che si sta rivelando molto utile in diverse branche della medicina interventistica tra le quali la cardiologia, grazie a un protocollo messo a punto dalla Cardiologia interventistica dell’ospedale “Cardinal Massaia” di Asti.
«Quello che abbiamo fatto ad Asti, per primi al mondo, è stato di adattare la tecnica di rilassamento basata sulla comunicazione ipnotica agli interventi di ablazione cardiaca affiancandola alla terapia farmacologica sedativa». A parlare è Marco Scaglione, primo autore di uno studio osservazionale apparso sulla stampa specializzata a settembre 2019, i cui risultati hanno dimostrato che la procedura di comunicazione ipnotica può diventare un protocollo da condividere nella cardiologia interventistica, e questo dopo neppure due anni di sperimentazione in pazienti affetti da fibrillazione atriale e altri tipi di aritmie. «Tutto è cominciato nel marzo 2018. Mi riferisco agli interventi di cateterismo cardiaco per la cura delle aritmie (ablazioni) e l’applicazione di pace maker e defibrillatori che ormai pratichiamo nella misura di due-tre al giorno», puntualizza il dottor Scaglione, che della S.O.C. di Cardiologia del “Cardinal Massaia” è anche direttore. «L’intervento di ablazione viene eseguito per mezzo di 2-3 cateteri inseriti in vene o arterie partendo dall’inguine. Una volta giunto all’interno delle camere cardiache, il catetere principale, che ha un sensore magnetico nella sua punta, è collegato a un computer che permette al medico di ricostruire il cuore dall’interno, in 3D. La ricostruzione del cuore così effettuata diventa una mappa che svela l’origine dell’aritmia offrendo al medico il bersaglio da “bruciare” con la punta del catetere ablatore per eliminare l’aritmia». È necessario gestire il fatto che il paziente deve rimanere fermo sul lettino operatorio per alcune ore, ridurre l’ansia procedurale e gestire il dolore che la “bruciatura” del circuito dell’aritmia può provocare. «Finora tutto ciò veniva controllato con l’uso di farmaci analgesici e sedativi ed in alcuni casi anche ricorrendo all’anestesia generale – spiega ancora il dottor Scaglione, aggiungendo che lui e la sua équipe – hanno introdotto la tecnica della comunicazione ipnotica come adiuvante alle tecniche tradizionali analgesiche». Ebbene, il protocollo di ipnosi messo a punto al “Cardinal Massaia” di Asti è stato testato in 70 pazienti ed ha avuto successo nel 97% dei casi, mentre altri 70 soggetti sono stati trattati con la sola sedazione farmacologica tradizionale e sono serviti da gruppo di controllo. Grazie all’ipnosi, la pratica mininvasiva si è dimostrata indolore nel 78% dei casi, riducendo l’ansia da intervento dell’83% e suscitando nel paziente la suggestione che “sotto ai ferri” c’è stato meno del 30% rispetto alla durata effettiva. È quanto si legge nel comunicato stampa fatto circolare in occasione della presentazione dello studio avvenuta a Milano il 17 gennaio scorso, alla presenza di oltre 150 cardiologi interventisti, nel corso dell’evento “Ipnosi e Cardiologia interventistica” organizzato dall’Istituto Franco Granone – Centro italiano di Ipnosi Clinico Sperimentale, e dall’Azienda Sanitaria Locale di Asti.
«Pur considerando che si tratta di interventi di cateterismo cardiaco per via percutanea, va detto che l’ablazione cardiaca effettuata con la tecnica della radiofrequenza produce bruciature del tessuto cardiaco che provocano dolore – ha dichiarato il dottor Scaglione nel corso dell’evento milanese – inoltre l’ablazione transcatetere richiede l’utilizzo di sistemi di mappaggio tridimensionale delle camere cardiache dove diventa fondamentale l’immobilità del paziente. Per questi motivi, tenendo conto che la durata delle procedure può arrivare a tre ore, è necessario tenere il paziente con un livello di sedazione tale da renderlo immobile e da permettergli un controllo del dolore. A tale scopo, in molte nazioni europee e sovente in America, queste procedure vengono praticate in narcosi, che può essere gestita anche dall’elettrofisiologo, mentre in Italia l’intervento richiede l’ausilio di anestesisti e quindi, a seconda delle disponibilità dei diversi ospedali, si opta per una sedazione più o meno profonda. Su queste basi, l’ingresso della comunicazione ipnotica come adiuvante della terapia farmacologica analgesica permette di ottenere un miglior controllo del dolore e un’azione sull’ansia e sul vissuto procedurale del paziente che non vuole essere alternativo ma complementare al supporto anestesiologico».
Oltre agli interventi di ablazione di elettrofisiologia ed emodinamica per la cura della fibrillazione atriale e di altre aritmie, in quali altri ambiti della cardiologia potrebbe essere applicata?
«Abbiamo esteso l’utilizzo dell’ipnosi anche per l’impianto di pacemaker e defibrillatori che richiedono sia l’inserimento di cateteri nel cuore attraverso le vene sia il loro collegamento a una “centralina” posizionata in una tasca sottocutanea per la quale è richiesto un mini intervento chirurgico con incisione della cute. Siamo stati i primi al mondo a pubblicare sulla rivista scientifica dell’associazione di aritmologia americana l’impianto di un defibrillatore sottocutaneo con la tecnica della comunicazione ipnotica. L’ipnosi ha delle potenzialità anche per le ecografie transesofagee, che sono interventi simili alla gastroscopia, per la quale l’ipnosi è già in uso. Entrambe ricorrono a una sonda ecocardiografica introdotta dalla bocca che avanzata all’interno dell’esofago e che può arrivare fino allo stomaco.
Inoltre, la si può usare in maniera più pervasiva in terapia intensiva, in ambito ginecologico e in tanti altri ambiti come il controllo del dolore da ustioni, con il paziente oncologico o in odontoiatria».
Sappiamo anche di tecniche di autoipnosi che vengono suggerite in concomitanza al trattamento ipnotico fatto dal professionista in sala operatoria. A che pro l’autoipnosi? E soprattutto, funziona?
«Alla fine di una seduta di ipnosi, prima di terminare riorientando il paziente al momento di attualità, è possibile fornirgli un “ancoraggio” a un gesto che gli consentirà di raggiungere di nuovo lo stato ipnotico, tutte le volte che vorrà, in piena autonomia. A che pro? Per ridurre ansia, dolore e stress. Per esempio, prima di entrare dal dentista, è possibile ripristinare lo stato di ipnosi per cautelarsi contro il dolore, oppure a fine di una giornata pesante per alleggerire lo stress. Oppure per ridurre l’ansia legata a un evento». Quindi un riutilizzo dello stato di ipnosi in un contesto che esula totalmente da quello da quello iniziale.
«L’importante – perché l’autoipnosi funzioni – è che non si lasci passare troppo tempo senza sperimentarla in proprio». Insomma, come per tutte le nozioni pratiche che si vogliono acquisire, è d’obbligo mantenersi in allenamento. Il consiglio sembra quello di provare e riprovare per mettere a punto questa tecnica.