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di Riccardo Segato

Con il termine microcircolo coronarico, ormai associato stabilmente a quello del suo studioso più illustre, il professor Crea, si intendono le coronarie più piccole, che rappresentano il 95 per cento dell’intero sistema vascolare. Gli esami per indagare il microcircolo basati su tecniche di imaging che consentono di valutare la perfusione miocardica, sono la scintigrafia, l’ecodoppler e la PET

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Fino a una trentina di anni fa nessuno o quasi sapeva cosa fosse il microcircolo coronarico. Di sicuro nessuno si era ancora preso la briga di indagarlo per capire che ruolo avesse nello sviluppo delle malattie cardiache. Ebbene, il professor Filippo Crea è stato uno degli antesignani nello studio del microcircolo coronarico e delle patologie connesse, e proprio per questo suo lavoro trentennale ha appena ottenuto un importante riconoscimento, il premio internazionale per la ricerca scientifica Arrigo Recordati.

Professor Crea, il premio Recordati le è stato assegnato “per il contributo offerto nell’innovazione e progresso del ruolo centrale del microcircolo nelle patologie di sistema d’organo”. Dopo che ha spiegato di che cosa si tratta a noi comuni mortali, ci dice se questo premio l’ha colto impreparato, ovvero se se l’aspettava oppure se ha prevalso l’effetto sorpresa, per così dire?

“Quando ero studente, alle prese con la preparazione degli esami di Medicina, ci veniva insegnato che la malattia coronarica dipendeva interamente dalle ostruzioni che si verificano nei grossi rami coronarici, percepibili con la coronografia. Dando retta a una serie di indizi si è poi appurato che i pazienti affetti da angina, ovvero una manifestazione legata ad alterazione coronarica, possono avere i grossi rami epicardici senza ostruzioni. Rami assolutamente normali. Con il tempo abbiamo imparato che l’alterazione del microcircolo è la causa di questa angina, che adesso chiamiamo angina microvascolare. Ebbene, nella messa a fuoco di questa nuova entità nosografica, grazie al mio contributo e al contributo del professor Attilio Maseri, che è stato il mio mentore nella carriera scientifica e universitaria, abbiamo dimostrato che l’angina microvascolare è una patologia causata da una particolare alterazione del microcircolo. Il passo successivo è stato definire la diagnosi e come trattare l’angina microvascolare in sede clinica; problematiche che hanno focalizzato ulteriormente l’interesse verso il microcircolo.

Nel tempo abbiamo verificato che il microcircolo ha un ruolo importante nelle miocardiopatie, le malattie che riguardano il miocardio. Inoltre, che le disfunzioni del microcircolo giocano un ruolo importante nei pazienti con ostruzioni dei rami epicardici. In particolare, in circa la metà dei pazienti con infarto trattati con angioplastica, la riapertura del ramo epicardico ostruito non risolve il problema perché il blocco del microcircolo impedisce comunque il giusto afflusso di sangue al cuore. Questa complicazione una volta veniva chiamata genericamente “fenomeno del no reflow”, mentre oggigiorno viene più correttamente definita come ostruzione microvascolare, perché di questo si tratta, un’ostruzione nel microcircolo che vanifica i vantaggi dell’angioplastica primaria. Il nostro gruppo ha messo a punto nuove terapie per prevenire l’ostruzione microvascolare, come la tromboaspirazione e l’uso dell’adenosina, una sostanza che dilata il microcircolo. Da notare che dopo un’angioplastica, anche in pazienti con angina stabile, il danno del microcircolo (cosa che capita in circa un terzo dei pazienti, quindi un fatto tutt’altro che infrequente) ha un impatto sulla prognosi e può essere prevenuto con l’utilizzo di farmaci adeguati.

Torno a ribadire che la curiosità generale nei confronti del microcircolo è stata stimolata dalla scoperta del ruolo fondamentale del microcircolo nella manifestazione dell’angina microvascolare in assenza di ostruzioni nei rami epicardici. Questo crescente interesse per il microcircolo coronarico mi ha indotto a proporre, insieme al prof. Camici anche lui esperto conoscitore del microcircolo, una classificazione sistematica delle alterazioni del microcircolo, pubblicata sul «New England Journal of Medicine».

“Mi chiedeva se il premio Recordati mi avesse colto di sorpresa. Diciamo che nella vita, per citare il Machiavelli del Principe, la fortuna può essere paragonata agli argini di un fiume, quanto più sono solidi e ben fatti, tanto più il fiume vi scorre dentro; certo che in caso di alluvione anche gli argini più robusti possono cedere alla prepotenza delle forze distruttive. Nella mia vita ho cercato di costruire dei buoni argini”.

Ho letto che con il termine “microcircolo coronarico”, a cui il suo nome di studioso viene ormai associato in rete, si intendono “le coronarie più piccole, ovvero le diramazioni del tronco aortico aventi un diametro inferiore a mezzo millimetro, che rappresentano il 95 per cento dell’intero sistema vascolare”. Queste coronarie più piccole, se ho ben capito, sfuggono al controllo della coronografia, che rimane l’esame appropriato per indagare unicamente il restante 5 per cento, ovvero i cosiddetti grossi distretti coronarci. Quali sono gli esami corretti per indagare il microcircolo coronarico?

“Gli esami per indagare il microcircolo coronarico sono basati su tecniche di imaging che consentono di valutare la perfusione miocardica. L’obiettivo del circolo coronarico è portare il sangue al cuore. Ora il sangue può arrivare al cuore in maniera non adeguata o perché il blocco è nei grossi rami epicardici, visibili alla coronografia, oppure perché il blocco è nel microcircolo. Per stabilire se il blocco è nel microcircolo coronarico bisogna utilizzare delle tecniche che consentono di valutare quanto sangue arriva al cuore. Le tecniche più usate sono la scintigrafia e una tecnica più recente, basata sull’ecodoppler, che consente di misurare la velocità del sangue in un’arteria particolare, la discendente anteriore. In questo caso si dà uno stimolo, l’adenosina, che dilata in maniera massimale il microcircolo e poi con la sonda doppler si valuta la velocità del flusso. Se il microcircolo non ha ostruzioni, ossia funziona bene, la velocità del flusso aumenta almeno di due volte e mezzo o più in risposta dell’adenosina. Se invece il microcircolo è alterato; l’aumento di flusso è inferiore a questo valore. C’è poi una terza tecnica, molto più costosa, riservata a indagini specifiche sul microcircolo e non all’uso clinico quotidiano. Questa tecnica si chiama PET ed è una metodica scintigrafica molto sofisticata che consente di misurare il flusso coronarico, dopo aver somministrato uno stimolo indotto, di solito l’adenosina. Anche in questo caso, vale il valore di riferimento di aumento del flusso sanguigno, superiore o inferiore a due volte e mezzo.

Riassumendo, certamente la scintigrafia, ma sta entrando in uso il doppler della discendente anteriore, che ha di buono che non implica l’uso di radiazioni e per ultimo ma non per importanza la tecnica PET, adatta a indagini molto mirate e per ricerche cliniche ad hoc. Recentemente risultati analoghi sono stati anche ottenuti con la risonanza magnetica che avrà un ruolo sempre più importante in futuro”.

Buona parte della sua carriera si è svolta all’estero. Qual è stata l’esperienza più formativa che ha fatto all’estero? E le persone con cui è venuto a contatto che le hanno insegnato qualcosa di veramente importante per la sua professione?

“Ho lavorato parecchio all’estero, dieci anni in Inghilterra e due anni negli Stati Uniti. A Londra, all’Hammersmith Hospital; negli Stati Uniti, presso la facoltà di Cardiologia dell’Università della Florida. Sono state tutte due esperienze formative.

Certamente esperienze che mi hanno aiutato a crescere, sia affinando l’approccio alla metodologia scientifica che le mie capacità cliniche. Anche perché, in questi due importantissimi centri universitari, nei miei anni giovanili hanno insegnato cardiologi di assoluta fama internazionale. È sotto la loro guida che mi sono formato, mettendo a fuoco una buona metodologia scientifica e migliorando “l’arte” di curare i pazienti.

All’inizio di questa nostra conversazione ho citato il professor Maseri, che è stato il mio mentore, ma potrei aggiungere il professor John Goodwin incontrato nell’esperienza londinese, che è stato uno dei più grandi clinici della storia della cardiologia mondiale. Goodwin è quel medico che visitando il paziente, guardando le giugulari, palpando e auscoltando il cuore, era in grado di fare delle diagnosi estremamente raffinate e precise. Aver avuto l’opportunità di seguirlo durante le visite in corsia, da un punto di vista formativo è stato estremamente utile, ed è un qualcosa che cerco di trasmettere ai mie allievi, gli specializzandi che afferiscono alla Scuola di Specializzazione in Cardiologia dell’Università Cattolica di Roma, che ho l’onore di dirigere. Se oggigiorno la tendenza è sempre più orientata verso la richiesta di esami strumentali, talora in modo troppo routinario, ebbene io cerco di dimostrare ai miei specializzandi, con l’esempio, che ascoltare bene i pazienti è un primo passaggio fondamentale. Visitar bene il paziente, insieme alla raccolta delle informazioni anamnestiche, già consentono di fare un’ipotesi diagnostica abbastanza accurata, che poi gli esami strumentali si incaricheranno di verificare. Avere un’ipotesi diagnostica è estremamente importante. Infatti, l’ipotesi diagnostica che noi formuliamo con il ragionamento clinico talvolta diverge dagli esiti degli esami strumentali e capita spesso che è la clinica ad aver ragione sul dato strumentale.

Il professor Maseri è stato il mio mentore, nel senso che devo a lui la mia formazione scientifica, fatta dell’acquisizione di una corretta metodologia scientifica, che si basa su un concetto che lui ama ripetere, ovvero che quello che è importante nella ricerca clinica ai fini della comprensione delle malattie, è farsi le domande giuste, perché è molto più difficile farsi la domanda giusta che darsi la risposta giusta, questo perché l’esperienza insegna che le domande veramente rilevanti sono poche.

Il microcircolo è un buon esempio dell’insegnamento di Maseri. Quando ero studente tutto era spiegato con la stenosi dei grossi rami coronarici. Aver cercato là dove nessuno cercava è stata la domanda giusta, per così dire. Allora il microcircolo non incuriosiva, anche perché non si vedeva, mentre le stenosi erano evidenti, si potevano by-passare, si potevano dilatare con il palloncino, quindi sembrava che non ci fosse bisogno di cercare altro se tutto era spiegato dalle stenosi. La curiosità e il farsi una domanda rilevante hanno messo a fuoco che il 95 per cento del circolo coronarico è rappresentato dal microcircolo e che quest’ultimo ha un ruolo rilevante in numerose malattie cardiache”.

Ci sono pazienti che a loro volta le hanno insegnato qualcosa per il solo fatto di affidarle forse il bene più prezioso che è la salute?

“Assolutamente sì. E non è la prima volta che ne parlo in un’intervista. La ricerca clinica ha proprio questo come obbiettivo. Noi abbiamo due approcci, la ricerca di base o sperimentale, che ha lo scopo di andare a fondo sui dettagli molecolari delle malattie, e poi la ricerca clinica, che è quella che parte dal paziente, dai problemi del paziente, dalle domande che spesso fa il paziente e a cui noi medici, in molti casi, non sappiamo ancora dare una risposta. Le domande del paziente stimolano appunto la curiosità a trovare risposte e sono poi quelle che attivano i protocolli di ricerca. Se si è fortunati, la ricerca clinica improntata sulla domanda del paziente finisce per dare risultati utili a capire la malattia. Poi sarà la ricerca di base che affinerà i dettagli molecolari; però è compito della ricerca clinica catalogare bene i pazienti, partire dai quesiti specifici, che sono spesso i pazienti a porre, per poi raffinare i risultati con una ricerca fatta di comune accordo con i biologi e i ricercatori di base. Questo è il circuito virtuoso, partire dal paziente, che spesso dà lo stimolo e pone il quesito; elaborare il quesito, trovare delle risposte da sviluppare con i ricercatori di base e quindi ritornare al paziente con quello che si è scoperto sulla malattia. È questo il circuito virtuoso che abbiamo imparato a mettere a punto. Proprio come amava dire Sherlock Holmes: osservare, concatenare e dedurre”.

La nostra rivista si chiama «Prevenzione Cardiovascolare» e ha la pretesa di insegnare alla gente che ci legge a prendersi cura della salute di cuore e arterie con largo anticipo, per così dire, e nel fare questo lavoro di indottrinamento ci sforziamo di rendere in termini semplici, adatti alla comprensione di tutti, ciò che la scienza medica, nella persona dei suoi più illustri rappresentanti, propone alla comunità scientifica. Lei ha dei consigli da dare a chi ci legge riguardo la prevenzione cardiovascolare?

“Il primo consiglio importante, che si evince dallo studio Interheart, è che la malattie cardiovascolari sono malattie ambientali. Ciò significa che, se riuscissimo a ridurre questi stimoli ambientali a partire dall’età pediatrica, potremmo debellare le malattie cardiovascolari dalla faccia della terra, così come il vaccino del vaiolo ha debellato la malattia. Gli stimoli ambientali sono noti a tutti, tuttavia non si riesce mai a contrastarli efficacemente fin dall’età pediatrica. Mi riferisco all’obesità, alla sedentarietà e a una dieta impostata in maniera sbagliata. E poi ovviamente il fumo. Certamente il primo sforzo deve essere fatto per iniziare la prevenzione in età pediatrica. Sono questi quattro stimoli che dovrebbero essere corretti il più rapidamente possibile.

Una volta che il meccanismo della formazione della placca aterosclerotica ha preso il via, è molto più difficile fermarlo, tuttavia studi anatomopatologici hanno dimostrato che si può arrivare almeno fino a 70 anni e oltre non avendo nemmeno una placca aterosclerotica nelle coronarie. In altre parole, una prevenzione ottimale può portare ad azzerare il rischio di formazione delle placche. Quindi bisogna cominciare precocemente, correggendo gli stimoli ambientali negativi, prima ancora di porsi il problema dei farmaci. Infine un fattore ambientale negativo è l’isolamento sociale più che il cosiddetto “stress”. Quest’ultima è parola quanto mai generica e ambigua. Mentre invece un vero e proprio fattore di rischio, difficilmente modificabile anch’esso ma più tangibile dello stress, è l’isolamento sociale causato dalla povertà. Disagio sociale e conseguente depressione. Il senso delle parole del Santo Padre, quando ci ha invitato a pensare agli altri e non solo a noi stessi, a mio avviso sono adattissime per recuperare il senso di solidarietà verso il prossimo che serve per arginare la povertà e il disagio sociale, due condizioni che certamente predispongono all’infarto. Lo studio Interheart ha dimostrato anche questo. Contro il disagio sociale l’iniziativa è certamente più di competenza delle istituzioni che della medicina e della cardiologia in particolare. Là dove noi medici possiamo essere molto attivi è invece convincere i nostri pazienti a non fumare, a essere molto snelli, a fare un’attività fisica regolare e a seguire una dieta che ha semplici principi, ovvero verdure e pesce innanzitutto. Una dieta cosiffatta non solo previene l’infarto, ma anche il cancro. Questi fattori di rischio sono comuni con le patologie neoplastiche, quindi una buona prevenzione cardiovascolare, è anche una buona prevenzione antineoplastica. Però è difficile essere credibili a dare questi consigli se a parlare è un medico che pesa 150 kg e che fuma davanti al paziente. Qui c’è anche una valenza etica che travalica le libere scelte del singolo, di cui un medico si deve fare carico. Infine, la prevenzione è anche basata su un controllo attento di pressione, glicemia e colesterolemia. Anche qui i dati sono chiari. Se noi preveniamo in maniera ottimale ipertensione, diabete e ipercolesterolemia e seguiamo uno stile di vita corretto la musica cambia davvero: si passa dall’ heavy metal a Mozart”.

di Riccardo Segato

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