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di Alberto Ferrari

Una canzone sulle rinunce di una vita imposte da motivi di salute. Sono le rinunce che durano fino a quando il “malato di cuore” sceglie di sfidare la sorte per assaporare anche lui, come tutti gli altri, il momento più intenso ed emozionante dell’esistenza, l’incontro amoroso. La morte, che giunge all’improvviso, non impedirà al protagonista di rivendicare il diritto di amare ed essere amato

“Cominciai a sognare anch’io insieme a loro/poi l’anima d’improvviso prese il volo”. Inizia così la canzone Un

malato di cuore di Fabrizio De André. “Loro” sono gli altri, i ragazzi che il cardiopatico, protagonista di questa lirica della rinuncia, da bambino vede giocare, “correre al prato”, e si chiede “come diavolo fanno a riprendere fiato”.

L’anima “prende il volo”, ovvero il ragazzo diventato adulto, a un certo punto della sua sfortunata esistenza di ammalato, muore, a causa della classica sincope, provocata da un infarto o di un altro accidente cardiaco non meglio specificato.

La sincope si verifica durante un momento di intimità con una ragazza. Sebbene sia passato a miglior vita – in villeggiatura sulla collina, insieme agli altri sfortunati protagonisti di Spoon River – il malato di cuore ha mantenuto – bontà sua – la capacità di ricordare. Infatti, ha un ricordo indelebile della prima e unica volta in cui si è appartato con una ragazza. C’è la visione nitida, carica di eros, delle “cosce color madreperla”, e quella confusa delle carezze e delle effusioni sentimentali che culminano nel momento topico dell’amore romantico: l’attimo del bacio. Un bacio che, come spesso accade in letteratura, segna l’inizio della fine. Dopo quel bacio tanto appassionato, le coronarie del malcapitato non reggono all’emozione. Un bacio fatale: “Ma che la baciai, per Dio, questo sì lo ricordo/e il mio cuore le restò sulle labbra”.

Più che l’infelice avventura romantica di un tizio affetto da malattia cardiaca congenita, questa canzone racconta, fuori di metafora, di come l’esistenza possa risolversi nell’attesa che qualcosa di bello accada. Qualcosa che – a lungo andare – le nostre paure ci fanno percepire come impossibile da realizzare, a causa di un ostacolo insormontabile (in questo caso la malattia), tant’è che quando ci capita di sfidare la sorte, veniamo puniti nella maniera più severa: con la morte. In questo caso, tuttavia, una morte apparente, che non impedisce al malato di cuore, insieme agli altri personaggi leggendari della cittadina di Spoon River rivisitata da Fabrizio De André

(nel disco Non al denaro, non all’amore, né al cielo) di avere cognizione dell’accaduto.

Cognizione che, in un certo senso, conferirebbe al post mortem una seconda chance, per così dire, quella del riscatto cognitivo. Il riscatto della consapevolezza. Se la morte non è la fine di tutto, vuol dire che l’anima, quantunque abbia “preso il volo”, riesce a sopravvivere attraverso il ricordo di quello che è stato e di quello che poteva essere.

La vita molto spesso ci fa assaporare il boccone amaro della rinuncia. Ma c’è un dopo, anche nell’ottica di un’etica laica come quella a cui si ispira sia il disco sia la canzone di De André, in cui tutto torna, le contraddizioni si ricompongono, il male si risolve nel bene, gli eccessi si stemperano e via di questo passo. Proprio come nel Paradiso degli uomini di Fede.

In margine al sito di testi musicali da cui abbiamo attinto il brano di De André, nello spazio dedicato ai commenti, una giovane donna chiede chiarimento sul significato del verso “a farti narrare la vita dagli occhi”. Trovo consolatorio che costei, che immagino particolarmente a digiuno di privazioni, in quanto nel fiore della vita, non arrivi da sola a capire che “farsi narrare la vita dagli occhi” è connesso proprio al tema centrale della canzone, il tema della rinuncia. Quasi che la consapevolezza della rinuncia arrivi a posteriori, quando si è troppo vecchi o quando, comunque sia, è troppo tardi. Stando così le cose non è mai troppo tardi, allora!

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