Capire in che modo il covid fa danni cardiaci è indispensabile per curarne gli effetti. All’Unità di Ricerca in Ingegneria tissutale cardiovascolare del Centro cardiologico Monzino di Milano, un Istituto di eccellenza per la cura e la ricerca nel campo delle malattie cardiovascolari, hanno approcciato il problema nel seguente modo. «Siccome c’è evidenza di iperinfiammazione cardiaca per effetto del covid – ci racconta Maurizio Pesce, biologo, coordinatore del progetto di ricerca Cardio-Cov – abbiamo pensato di indagare la reazione delle cellule che normalmente contribuiscono alla risposta infiammatoria a seguito di malattia cardiaca (esempio, l’infarto), mettendole a contatto con il virus».
In base agli esperimenti fatti in vitro finora s’è visto che le cellule stromali, tra le più importanti nella risposta infiammatoria in caso di stress cardiaco, quando vengono in contatto con il virus, non solo s’infettano, ma sono in grado di riprodurlo. Il virus è infatti capace di penetrare nelle cellule sfruttando un recettore cellulare conosciuto con il nome ACE2. Il processo dipende da quanto recettore ACE2 le cellule stromali esprimono. In cellule di soggetti con bassi livelli di espressione, il virus non è in grado di entrare nelle cellule, mentre in cellule di soggetti con livelli più elevati del recettore, l’infezione diventa “produttiva”, cioè in grado di replicare il virus. Il perché vi sia una differenza tra soggetti nell’ espressione del recettore è ancora senza risposta. Ed è, appunto, l’oggetto dello studio.
In ogni caso, “Quando le cellule dei pazienti che esprimono poco ACE2 s’imbattono nel virus – spiega Maurizio Pesce – esse reagiscono comunque con una risposta di tipo infiammatorio. Per cui l’idea che ci stiamo facendo è che vi sia un meccanismo duplice di danno. Uno dovuto alla replicazione virale diretta nel cuore in relazione ai livelli di ACE2, e un altro che dipende invece dalla risposta infiammatoria legata all’attivazione dell’ immunità innata, cosa per altro vera anche per altri coronavirus, come si evince dalla letteratura».
Per conoscere l’intera questione più in profondità pare che ci sia ancora bisogno di investigare sul fenotipo di queste cellule stromali. «L’obbiettivo è capire meglio i differenti tipi di risposta e se e come essi si combinino tra loro». È questo lo scopo del progetto Cardio-Cov – gestito in collaborazione con l’Istituto Nazionale di Malattie Infettive dello Spallanzani di Roma e l’azienda di biomedica React4life.
Grazie a una ricerca recente, messa a punto all’Unità di Anestesia e Terapia Intensiva del Policlinico Sant’Orsola di Bologna, sappiamo che il rischio di morte per polmonite bilaterale si dimezza a seconda di come il virus colpisce l’organo. Grazie a questo studio apparso su “Lancet Respiratory Medicine”, emerge che fra i pazienti più gravi (con decessi al 60%) che necessitano del trattamento nelle terapie intensive, vi sono quelli che il virus li ha colpiti sia a livello dei vasi sanguigni dei polmoni, con eccesso di coagulazione, sia a livello degli alveoli polmonari, riducendo la capacità di immagazzinare ossigeno e espellere anidride carbonica. La differenza è con i pazienti colpiti solo in uno dei due distretti polmonari, fra i quali la percentuale dei decessi scende al 20%.
E sul fonte cardiovascolare? «La prima cosa che c’è venuta in mente è stata quella di fare una correlazione fra i livelli di ACE2 e le terapie antipertensive assunte dai pazienti – continua Maurizio Pesce. Tuttavia, dai dati in nostro possesso non sembra emergere questo tipo di legame». Va detto che le cellule stromali utilizzate negli esperimenti in vitro, derivano da piccoli prelievi tissutali eseguiti di regola durante le operazioni di cardiochirurgia. Va da sé che i pazienti donatori appartengano a una coorte di persone malate di cuore, per lo più di 65 anni e oltre. «Principalmente per cardiomiopatia ischemica o disturbi valvolari associati a ischemia». Come dire, soggetti ideali per lo studio delle interazioni fra cellule e virus, considerando che la prevalenza delle complicanze cardiovascolari da Covid-19 si riscontra in pazienti con fattori di rischio omonimi.
Ma torniamo all’essenza di questo lavoro di ricerca che, stando a quanto dice il nostro interlocutore, è pronto per un primo riscontro sulla stampa specializzata. «Siamo alla ricerca di una rivista scientifica che lo valorizzi al meglio. E stiamo passando alla fase due del progetto che, spero, ci permetterà di approfondire le differenze di risposta al virus fra cellule che esprimono diversi livelli di ACE2.
Resta che le differenze nelle riposte al virus iniziano ad avere una loro plausibilità. «La letteratura dice che una caratteristica del covid è di dare un risposta molto soggettiva nei vari pazienti. C’è chi manifesta sintomi molto gravi e chi niente. Sto parlando, nel secondo caso, di chi ha avuto il covid e non se ne è neppure accorto da un punto di vista polmonare». La risposta nel cuore potrebbe essere simile con riscontri molto diversificati tra soggetti. Sta alla équipe diretta da Maurizio Pesce scoprire il perché.
In conclusione: «Noi possiamo contribuire alla messa a punto di una terapia cardioprotettiva. Prima di farlo, dobbiamo capire se vi sono soggetti differenti che possono avere conseguenze più gravi o meno gravi dal covid limitatamente al punto di vista cellulare». Un “capire” che, a tacer d’altro, sarà un contributo alla conoscenza in seno alla comunità scientifica internazionale.