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Che cosa sta cambiando a causa del Covid in termini di condivisione delle informazioni scientifiche? Un dato che salta subito agli occhi è che ogni cosa sembra aver messo il turbo. Prendiamo uno studio pubblicato online su «Nature». In italiano, l’accattivante titolo di questo studio si potrebbe tradurre con “Associazione tra assunzione di statine e calo della mortalità nei pazienti ospedalizzati con covid-19”. Ci fa notare Sergio D’Addato, medico e ricercatore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna, Ospedale Sant’Orsola, che questo studio ce l’ha segnalato, la velocità con la quale il lavoro in questione è stato revisionato e pubblicato è stata notevolissima. «Una cosa mai vista». Come si legge fra le note di pubblicazione, lo studio è stato spedito a «Nature» il 1° ottobre 2020, revisionato entro l’11 e disponibile online dal 19 dello stesso mese. «In epoca precedente al Covid, quando si mandava un lavoro, non si riceva nessuna risposta prima di due mesi e mezzo. Passato questo lasso di tempo, chi di competenze si faceva vivo per dire se erano favorevoli o meno alla pubblicazione. Da quel giorno erano necessari altri sei mesi per vedersi pubblicato il lavoro», chiosa d’Addato.
Il rovescio della medaglia è che non tutti i lavori che vengono pubblicati sono ineccepibili. A quanto pare, se solo nel titolo c’è la parola Covid-19, le maglie si allargano, diventano fin troppo lasche e l’impressione è che facciano passare di tutto. È il caso, in un certo senso, dello studio in questione. Come vedremo nel dettaglio, questo lavoro ha i suoi meriti. Apre scenari promettenti a riguardo della statinoterapia e degli effetti protettivi che questi farmaci sono in grado di esercitare nei confronti della malattia da Covid-19. Solo che alle conclusioni finali, i ricercatori arrivano per approssimazioni, correggendo il tiro a riguardo delle variabili da introdurre per fare un confronto ineccepibile fra le due classi di pazienti sulle quali hanno posto la loro attenzione. Si tratta di 2626 pazienti in tutto (metà di quali in statinoterapia), ricoverati per covid in un ospedale a New York e indagati per alcuni mesi dalla data del ricovero.

La premessa iniziale era verificare se i pazienti Covid che assumevano statine manifestavano un aggravamento della prognosi e una mortalità più alta rispetto al gruppo di controllo, composto da soggetti con caratteristiche analoghe o paragonabili, fatta eccezione per il fatto che non assumevano statine. La prima elaborazione sul dato grezzo ha portato gli autori a concludere che sì, chi assumeva statine si esponeva a un aggravamento della prognosi indiscutibile. Poi, man mano che sono state introdotte variabili per migliorare il paragone fra i due gruppi di pazienti, la conclusione finale si è ribaltata, andando a sposare la tesi contraria, e cioè che la prognosi nei due gruppi, a ben vedere, è la stessa. Le statine compensano lo svantaggio rappresentato dalle sottostanti condizioni cardiovascolari, peggiori nel gruppo d’indagine rispetto a quello di controllo. «Andando a vedere nel merito la composizione delle due popolazioni, si scopre quali erano le variabili da introdurre per bilanciare gli squilibri. Chi ha ricevuto le statine era mediamente più vecchio, più esposto alle conseguenze di macro e microvasculopatia e broncopneumopatia. In un maggior numero utilizzavano quotidianamente la cpap per migliorare la respirazione, ovvero avevano una malattia polmonare più severa. Il tutto alla fine si spiega come se i soggetti del gruppo d’indagine, grazie alle statine, avessero sviluppato condizioni sovrapponibili a quelle di persone con un quadro clinico migliore, paragonabili a quelle del gruppo di controllo. La conclusione in questo caso è che le statine, nella profilassi del Covid non solo funzionano, ma funzionano molto bene».
C’è una base scientifica sugli effetti postivi delle statine nel rallentamento della malattia da Covid-19? Se ne parla sempre nell’articolo dal quale abbiamo preso le mosse, e la risposta alla domanda è affermativa. Sembra che l’HDL (il colesterolo “buono”) agisca sul Covid. In qualche maniera funziona da trasportatore. Facilita l’ingresso del virus all’interno della cellula. E questo è un dato di fatto negativo. «Di contro, i soggetti che hanno il covid hanno il colesterolo totale molto basso – ci ricorda ancora il nostro interlocutore, che aggiunge – Questo perché, si ipotizza che il virus consumi colesterolo. Nel capside virale – la parte esterna del virus – vi è anche del colesterolo. In questo modo, in caso di positività al Covid-19, del colesterolo viene consumato dal virus, quindi il valore assoluto di questo lipide si abbassa».

Quindi le statine come agirebbero? Innanzi tutto, possono inibire la penetrazione del virus all’interno della cellula. Questo perché riducono i lipidi che possono essere i traghettatori del virus nella cellula. Mettendo meno “pappa” di colesterolo a disposizione del virus, gli impediscono di replicarsi. Poi vi è l’effetto ancillare. Come ci spiega D’Addato, «si tratta di un potente effetto antinfiammatorio. S’è visto come i soggetti con Covid e in terapia con le statine, avevano una risposta anticorpale inferiore, quindi una performance migliore rispetto ai soggetti non in statinoterapia. Inoltre, la statina diminuisce tutti gli effetti principali del virus, che sono gli effetti pro-infiammatori. Meno infiammazione, significa assunzione di cortisone più blanda: il cortisone è il farmaco che si assume in presenza di uno stato infiammatorio importante. Questa risposta, se modulata e ridotta, comporta meno sintomi gravi legati al virus.
La statina potrebbe agire come prevenzione? «Sarebbe un azzardo sostenerlo. Gli studi che hanno messo in relazione la statina al Covid sono studi retrospettivi. Per poterlo affermare con la necessaria sicurezza si dovrebbero fare prima degli studi clinici in sintonia con questo che si vuole misurare: soggetti in statinoterapia e non seguiti clinicamente nella prognosi del Covid. Possiamo comunque dire che chi assume la statina e incontra il Covid non la deve sospendere».

Sergio D’Addato, medico e ricercatore del Dipartimento di Scienze Mediche e Chirurgiche dell’Università di Bologna, Ospedale Sant’Orsola.

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