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I ricercatori dell’Unità di Ricerca in Ingegneria tissutale cardiovascolare
del Centro cardiologico Monzino di Milano. L’équipe è coordinata dal dottor Maurizio Pesce (seduto).

Perché occuparci di Covid in una rivista che tratta di malattie cardiovascolari? Per chi segue le nostre pubblicazioni da un anno a questa parte, la risposta è scontata. Abbiamo imparato a conoscere che il coronavirus è assai pericoloso a causa delle complicazioni che esercita sul cuore e sul sistema arterioso. Succede che all’inizio della malattia il virus sia in predicato di scatenare la miocardite e la pericardite, due alterazioni dei tessuti e dei liquidi cardiaci. Oppure di provocare una cardiomiopatia, il processo infiammatorio a causa del quale la capacità contrattile del muscolo cardiaco s’indebolisce. Altro riscontro della risposta infiammatoria alla presenza del virus sono malattie come la fibrosi e lo scompenso cardiaco.
A lungo termine, le conseguenze sono ancora sconosciute. Quello che sappiamo, in base ai riscontri di tipo clinico, è che molte persone accusano sintomi sovrapponibili con quelli cardiovascolari anche a distanza di mesi dalla negativizzazione, quantunque, durante la fase acuta, alcune di loro non risultavano neppure ammalate.

Prima di entrare nel merito di questa casistica così eterogenea e che non va esente dalla complicazioni del cosiddetto long-Covid, partiamo da un assunto di base che avevamo già messo a fuoco nei mesi scorsi intervistando uno dei protagonisti della ricerche che stanno studiando le modalità attraverso le quali il Covid-19 interagisce con le cellule del cuore. Il riferimento è al lavoro scientifico che svolge, fra gli altri, il dottor Maurizio Pesce insieme ai ricercatori dell’unità di Ricerca in ingegneria tissutale cardiovascolare del Cento cardiologico Monzino di Milano. In collaborazione con l’Istituto nazionale malattie infettive “Lazzaro Spallanzani” di Roma, Pesce e colleghi hanno riscontrato che la risposta infiammatoria che il Covid-19 esercita sulle cellule stromali del cuore è la stessa che si verifica a seguito di malattia cardiaca (per esempio, in caso d’infarto). Una risposta che persiste anche dopo la guarigione dal virus, ha dichiarato di recente Maurizio Pesce, nel presentare alla stampa le conclusioni del lavoro di ricerca pubblicato a maggio di quest’anno sulla stampa scientifica. Una conclusione che supporta l’uso di antinfiammatori nella terapia anti-Covid e che scagiona definitivamente gli ACE inibitori, che molti assumono con la terapia antipertensiva e che, a tutta prima, erano stati indicati come un possibile carrier per la penetrazione del virus nei tessuti cardiaco e polmonare. «L’evoluzione del virus in senso infiammatorio è indipendente dai livelli di espressione del recettore ACE2», sintetizza oggi Maurizio Pesce, trasformando un assunto teorico in certezza scientifica.

Perché alcune persone avvertono palpitazioni, si sentono stordite o svengono dopo che hanno avuto il Covid e si sono negativizzate da mesi?
Ci sono prove emergenti che alcune persone che sviluppano il long Covid manifestano sintomi simili ai pazienti affetti da tachicardia ortostatica. Si tratta di un disturbo che può causare vertigini quando ci si alza in posizione eretta. Alla base vi sono gli stessi processi infiammatori che scatenano le malattie cardiovascolari durante la fase acuta dell’infezione virale. I sintomi più comuni sono sensazione di vertigini, palpitazioni (avere consapevolezza del proprio battito cardiaco) e senso di affaticamento.
La letteratura in materia parla di soggetti con questi sintomi che persistono a distanza di mesi dalla negativizzazione.
Normalmente, quando si passa dalla posizione seduta a quella in piedi, il sangue fluisce verso il basso assecondando la legge di gravità, il che può causare un calo della pressione sanguigna. A questa evenienza l’organismo risponde restringendo i vasi sanguigni e aumentando leggermente la frequenza cardiaca, proprio per prevenire il calo di pressione. Ma se le condizioni di vertigini e palpitazioni post-Covid persistono, queste evenienza non si verifica. Succede che nel momento in cui si acquisisce la posizione eretta, l’apporto di sangue al cuore e al cervello diminuisce e il cuore inizia a battere più velocemente per compensare.
Quantunque non esista una cura per questo disturbo, esso può essere migliorato con una dieta ipocalorica e facendo adeguato esercizio fisico di tipo propriocettivo, finalizzati a migliorare il senso dell’equilibrio e la postura. Se anche così non passa, allora bisogna ricorrere ai farmaci. A detta dei ricercatori che hanno indagato questo disturbo, è importante fare una diagnosi accurata, in modo che i pazienti possano essere trattati e consigliati al meglio nella gestione dei sintomi.
Chi dovesse avere sintomi di vertigine, palpitazioni e capogiri di carattere ortostatico dopo aver contratto il Covid-19, deve farlo presente al medico che, seguendo le direttive emanate in proposito, si adopererà per garantire al suo assistito un trattamento ad hoc.
Di che cosa si tratta? Il punto di partenza è un test di supporto attivo, che misura i cambiamenti di frequenza cardiaca e pressione sanguigna ad ogni modifica posturale.

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