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di Alberto Ferrari

Viaggio nelle illegalità della catena di coltivazione, produzione e distribuzione del cibo, là dove quello che mangiamo viene alterato,adulterato, falsificato,a grave danno delle regole di mercato e della salute dei consumatori.Lo spunto a parlarne ce lo offre la quarta edizione del rapporto annuale di “Agromafie”

Il pane costa poco ma essendo consumato giornalmente da milioni di persone in tutto il mondo rientra fra le voci di maggior fatturato dell’agroalimentare. Non è un caso se molte delle frodi alimentari scoperte dalle Forze dell’Ordine nel nostro Paese, in cui il pane rappresenta uno degli alimenti cardine della dieta mediterranea, hanno per oggetto proprio il pane. Stando ad “Agromafie”, il rapporto annuale sui crimini agroalimentari in Italia, aggiornato al 2015-primavera 2016, metà del pane consumato è fatto con grano importato. E fin qui non ci sarebbe niente di male, se la provenienza delle materie prime fosse indicata sulle confezioni, cosa che purtroppo non è. Infatti, la tracciabilità del prodotto di un bene di consumo come il pane è tutt’altro che chiara, per cui il consumatore ignora bellamente l’origine delle michette o delle pagnotte che sta mettendo in tavola. È la criminalità che s’incarica di trasportare le granaglie illecitamente, e spesso lo fa senza la minima attenzione alla conservazione del prodotto. Nel citato rapporto leggiamo che non sono mancati casi in cui carabinieri e polizia hanno bloccato camionisti che trasportavano il grano in serbatoi contaminati da rifiuti tossici. Evidentemente, ricorrendo a questi soggetti senza scrupoli che non esitano ad attentare alla salute pubblica pur di viaggiare sempre a pieno carico, i costi di trasporto si abbattono drasticamente, a svantaggio, tra gli altri, di chi fa le cose per bene. Inoltre, l’Italia importa dalla Romania un impasto semilavorato e congelato che può resistere due anni. Il 25% del pane venduto a basso costo in supermercati del Nord e del Centro Italia è fatto con questo impasto. Il che, oltre a immettere sul mercato una qualità di pane più scadente, ha implicazioni negative per i piccoli produttori artigianali, che spesso sono costretti a chiudere bottega a causa di una simile concorrenza. E al Sud? La mafia al Sud si fa ancora meno scrupoli, se possibile. Le cronache riferiscono di un’attività di panificazione gestita dalla camorra che, nella provincia di Napoli, bruciava rifiuti legnosi ricoperti di vernici e di altre sostanze tossiche in forni illegali.

Se il pane è uno dei prodotti più contraffatti per via dei grossi ricavi garantiti dalla larga distribuzione, le attività illecite non risparmiano neppure le eccellenze del Bel Paese, come il formaggio grana, il prosciutto crudo, la mozzarella, il vino. Anzi, in considerazione del suo ineguagliato patrimonio di primati alimentari, l’Italia è una vittima designata della contraffazione. Alterazione, adulterazione, falsificazione e contraffazione dei marchi e delle certificazioni di origine dei prodotti. È quello che il “made in Italy” alimentare è costretto a sopportare per via dell’alta domanda, interna e internazionale, dei suoi formaggi e salumi, vini e liquori ecc. più famosi. Quello che è sicuro, come scrive il magistrato Giancarlo Caselli nella prefazione al libro in oggetto, è che la legislazione a salvaguardia del consumatore deve garantire il più possibile delle scelte consapevoli attraverso l’imposizione di un’etichetta narrante l’origine, la produzione e la qualità del prodotto venduto al dettaglio. Solo così si può sperare di mettere il malaffare in difficoltà. Diversamente, in assenza di regole certe, di pene sicure, i furbi prosperano alle spalle dei produttori che fanno le cose onestamente. E siccome le merci ancora più delle persone varcano Paesi, andando a pesare parecchio sulla bilancia degli scambi commerciali, sarebbe utile che le regole, una volta condivise, venissero applicate in ogni singolo Stato, alfine di garantire giustizia per tutti. Ragion per cui, tanto per fare un esempio noto, il “Parmesan” prodotto negli USA e spacciato per “made in Italy”, che crea non poco danno al nostro formaggio, se non altro sottraendogli impropriamente quote di mercato, dovrebbe essere bloccato all’origine, attraverso un’etichettatura che dichiari la provenienza americana delle materie prime e del luogo di lavorazione, lasciando al consumatore la possibilità di decidere se accontentarsi del prodotto “che suona italiano” oppure se ricorrere a quello vero, di importazione certificata, recante nome “Parmigiano-Reggiano”. Ma non si pensi che una simile furbizia avvenga solo a nostro danno. Sempre dal rapporto in oggetto apprendiamo che ameno 2/3 dei prosciutti crudi a marchio “Parma” e “San Daniele” sono fatti con carni non allevate in Italia. Che 3 su 4 dei cartoni di latte Hut (a lunga conservazione) arrivano da allevamenti dell’Est Europa.

In conclusione, citando ancora Giancarlo Caselli, la legislazione ha l’obbligo di aggiornarsi, se vuole sottrarre spazi di penetrazione e malaffare alla criminalità organizzata, ricorrendo a regole condivise, pene più severe e una maggior attività di intelligence da parte delle Forze dell’Ordine. Sappiamo che la cosa più importnate non è tanto la salvaguardia delle regole di mercato e di libera concorrenza o, per lo meno, non solo, ma la salute di quegli uomini, donne e bambini che prodotti come il pane, il latte e il formaggio li consumano quotidianamente.

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