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di Angela Nanni

Defibrillatori impiantabili, pacemaker e pompe a sostegno del cuore: questi piccoli apparecchi possono cambiare la vita quando il cuore non batte più come dovrebbe. In presenza di quali malattie e quali sono i soggetti a cui vengono consigliati

Con il progressivo incremento dell’aspettativa di vita è aumentato anche il novero delle malattie croniche che hanno favorito, fra le altre cose, un’impennata delle aritmie ovvero delle anomalie del battito del cuore che interessano oltre mezzo milione di italiani anziani (4 su 100 degli over 65) e che costituiscono una delle cause più frequenti di accesso al Pronto Soccorso o di ricovero in cardiologia. Per aritmia si intende una condizione clinica nella quale viene a mancare la normale frequenza o la regolarità del ritmo cardiaco. Molte aritmie sono assolutamente benigne e non comportano conseguenze serie per il paziente. Esistono poi casi molto gravi in cui l’aritmia può provocare un arresto cardiaco e quindi la morte. «Tutte le persone sperimentano alcune forme di aritmia nella loro vita, ma nelle forme più gravi questo disturbo riguarda per lo più persone ad alto rischio e anziane che hanno avuto un infarto o che sono affette da patologie gravi come lo scompenso cardiaco – precisa il professor Renato Pietro Ricci, presidente dell’Associazione Italiana Aritmologia e Cardiostimolazione (AIAC) del Centro CardioAritmologico di Roma, che aggiunge – tuttavia anche i più giovani possono essere colpiti da questo disturbo. Parliamo di numeri molto alti, basti pensare che ogni anno in Italia si registrano circa 40.000 casi di arresto cardiaco che possono portare alla morte improvvisa del paziente che, a sua volta, rappresenta la causa del 40% delle morti cardiovascolari e il 10% di tutte le cause di morte. Ci sono poi situazioni particolari, come per esempio il caso degli sportivi. Diversi studi hanno infatti dimostrato che, in presenza di certe patologie predisponenti, tra le quali la cardiomiopatia ipertrofica e la cardiomiopatia aritmogena, l’incidenza di morte improvvisa è più alta in questa categoria rispetto ai sedentari perché lo sforzo massimale prolungato e l’attivazione del sistema nervoso simpatico possono agire da trigger dell’aritmia e scatenare l’evento fatale, cosa meno probabile nei sedentari».
Cosa si può fare per aiutare un cuore che non batte più a dovere? Scorrendo la letteratura sull’argomento, risulta che scelta del trattamento di un’aritmia cardiaca dipende dalla natura e dall’intensità della stessa e dall’eventuale associazione con altri problemi cardiologici. Generalmente si curano prima eventuali patologie sottostanti, quali l’ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco o le malattie della tiroide, poi si procede con i trattamenti specifici. «I pazienti anziani con una diagnosi di cardiopatia nota, in particolare coloro che hanno superato un infarto o che hanno uno scompenso cardiaco, devono essere sottoposti a una valutazione clinica generale che permetta di stratificare il loro livello di rischio e di intervenire eventualmente con i dispositivi tecnologici che oggi abbiamo a disposizione», afferma il professor Ricci. Insomma, quando compaiono gravi disturbi del ritmo non risolvibili più con la terapia farmacologica si può ricorrere all’utilizzo dei dispositivi impiantabili. Un defibrillatore impiantabile (o ICD), può essere salvavita: l’ICD è un piccolo dispositivo in titanio che s’impianta sotto la cute ed è alimentato a batteria. «Serve per monitorare il ritmo cardiaco, per stimolare il cuore e, in caso di aritmie ventricolari maligne che possono portare a morte improvvisa, per erogare una piccola scarica elettrica capace di ripristinare il ritmo normale. L’impianto di defibrillatore è per lo più indicato nei soggetti con scompenso cardiaco, ma in un certo numero di casi anche in soggetti con malattie genetiche che possono portare a morte improvvisa quali la Sindrome da QT lungo o la Sindrome di Brugada», precisa ancora il professor Ricci. Un importante progresso nella terapia elettrica dello scompenso cardiaco è rappresentato dalla terapia di risincronizzazione cardiaca (CRT) che proprio quest’anno compie 25 anni e che ha completamente mutato il destino di questi pazienti. Consiste nell’impianto di uno stimolatore cardiaco (pacemaker) capace di stimolare oltre all’atrio destro anche i due ventricoli simultaneamente (a differenza dei pacemaker tradizionali che stimolano solo atrio e ventricolo destro). La stimolazione contemporanea dei due ventricoli ripristina il sincronismo della contrazione e migliora l’efficienza cardiaca con importanti benefici su qualità di vita, prevenzione delle ospedalizzazioni e sopravvivenza. «Il dispositivo CRT può essere combinato con il defibrillatore (CRT-D) se il paziente è ad alto rischio di morte improvvisa o essere limitato alla sola funzione di stimolazione (CRT-P) nei casi a più basso rischio. Nei pazienti che presentano frequenti episodi di aritmie ventricolari gravi che richiedono frequenti scariche da parte del defibrillatore (sia ICD che CRT-D) è possibile oggi, mediante l’introduzione di piccole sonde all’interno delle cavità cardiache, identificare i circuiti che generano tali aritmie ed eliminarli mediante l’erogazione di energia a radiofrequenza (ablazione trans catetere) – spiega il professor Ricci che tiene anche a precisare – si tratta di una tecnica complessa ma ormai consolidata che offre grandi vantaggi al paziente in termini di qualità di vita e anche di sopravvivenza». Quando l’impianto di un pacemaker per la terapia di risincronizzazione cardiaca (CRT) o il defibrillatore impiantabile (ICD) non sono più sufficienti, esiste l’opzione VAD ovvero dell’impianto di un Ventricular Assist Device, ossia di un dispositivo di assistenza ventricolare. Tale opzione è valida soprattutto in caso di insufficienza cardiaca in fase molto avanzata per accompagnare il paziente nelle migliori condizioni possibili verso il trapianto cardiaco, che di solito trova indicazione per quelli con meno di 65 anni e quindi fargli superare il periodo di attesa. Grazie alla tecnologia sempre più avanzata in grado di produrre dispositivi più piccoli, oggi i VAD vengono utilizzati anche come terapia permanente. Si parla di destination therapy, una possibilità per i soggetti che non possono essere trapiantati per ragioni cliniche o per l’età avanzata. A volte, infine, è necessario sostituire le valvole con delle protesi, se la causa dello scompenso è rappresentata da una malattia valvolare; o procedere a interventi di rivascolarizzazione miocardica con angioplastica o by-pass aorto-coronarico, se è l’ischemia a provocare lo scompenso.
E il telemonitoraggio? Il telemonitoraggio rappresenta lo standard di controllo per i pazienti con dispositivo cardiaco impiantabile come pacemaker, defibrillatori o VAD, ma più in generale per il paziente cardiopatico. La telemedicina è l’insieme di tecniche mediche e informatiche che permettono la cura del paziente a distanza, la semplificazione dei percorsi e l’ottimizzazione delle risorse, migliorando i flussi organizzativi delle strutture ospedaliere. «Grazie alla telecardiologia abbiamo la possibilità di richiamare i pazienti in caso di necessità, intervenire tempestivamente e prevenire situazioni critiche. Tale tecnica infatti consente di effettuare diagnosi precoce di gravi patologie che spesso sono silenti quali la fibrillazione atriale e lo scompenso cardiaco. Il risultato è quello di prevenire eventi avversi, di ridurre il numero delle ospedalizzazioni con benefici in termini di sopravvivenza – avverte il professor Ricci, che conclude – si tratta in sostanza di un’osservazione clinica continua e di una vera e propria presa in carico del paziente. In Italia circa il 50% dei defibrillatori e il 20% dei pacemaker sono in telemonitoraggio, nonostante ad oggi la prestazione non sia ancora stata codificata dal Sistema sanitario nazionale e non venga rimborsata alle strutture che la utilizzano e che, per questo, presentano ancora grosse difficoltà ad allocare le risorse necessarie. Il monitoraggio remoto automatico assicura, inoltre, una sorveglianza continua con attivazione di allarmi automatici per anomalie della batteria e dei circuiti e consente pertanto una reazione precoce in caso di malfunzionamento del sistema impiantato. Permette inoltre di ottimizzare la programmazione dei dispositivi con effetti favorevoli sulla longevità della batteria».
Quando l’aritmia è una conseguenza dello scompenso? L’insufficienza o scompenso cardiaco è la condizione patologica che comporta un’alterazione strutturale o funzionale del muscolo cardiaco che gli impedisce di funzionare bene. Quando l’insufficienza cardiaca arriva allo stadio avanzato può succedere che compaiano gravi disturbi del ritmo cardiaco. La condizione si caratterizza per un insieme di sintomi e manifestazioni fisiche causate dall’incapacità del cuore di assolvere alla normale funzione contrattile di pompa e di soddisfare il corretto apporto di sangue a tutti gli organi. In Italia questa malattia causa circa 190 mila ricoveri l’anno, rappresentando la seconda causa di ricovero, dopo il parto naturale. È la prima causa di ricovero tra gli ultra 65enni; si rilevano 4-5 pazienti ospedalizzati ogni 1000 abitanti e il 56,6% dei pazienti viene ricoverato di nuovo entro 1 anno dal primo ricovero. La condizione costituisce la prima causa di morte tra le patologie cardiovascolari nel nostro Paese. Si conta una prevalenza nella popolazione generale dell’1-2%, mentre negli over 65 è del 6,4%. L’incidenza di nuovi casi nella popolazione generale è dello 0,2% per anno, e negli over 85 del 4%. Incide per l’1-2% dei costi della spesa sanitaria totale. Lo scompenso è una condizione che generalmente consegue ad altre patologie che minano il benessere cardiovascolare quali la cardiopatia ischemica, l’ipertensione arteriosa, le alterazioni delle valvole cardiache, la cardiomiopatia dilatativa, le miocarditi ovvero le infezioni e infiammazioni del muscolo cardiaco, alcune aritmie. La condizione può instaurarsi anche come effetto collaterale dell’assunzione di alcuni farmaci oncologici quali antracicline, trastuzumab, cetuximab; farmaci antidepressivi, antiaritmici, antinfiammatori non steroidei, anestetici e dipendere, infine, dall’abuso di alcol. Costituiscono fattori di rischio per lo sviluppo della condizione l’ipercolesterolemia, il fumo, l’ipertensione, il diabete e l’obesità, tutti fattori di rischio modificabili. Nel loro insieme quando non opportunamente contrastati possono contribuire a determinare cardiopatia ischemica, che rappresenta la principale causa di scompenso cardiaco. Una volta fatta diagnosi della condizione, il trattamento mira a rallentarne la progressione, aumentare la sopravvivenza, migliorare la qualità di vita. Le opzioni di trattamento prevedono modifiche nello stile di vita: in primis l’abbandono del vizio del fumo, la limitazione dello stress e la pratica regolare dell’attività fisica, un’alimentazione sana ed equilibrata al fine di mantenere nella norma il peso corporeo, il controllo della glicemia, dell’ipercolesterolemia e dell’ipertrigliceridemia. La terapia farmacologica si è arricchita recentemente di una nuova classe di farmaci, gli ARNI antagonisti del recettore della neprilisina e del recettore dell’angiotensina. Questi farmaci contrastano i meccanismi neurormonali che portano a vasocostrizione e ritenzione di liquidi e favoriscono invece vasodilatazione e natriuresi (eliminazione del sodio per via renale). Oltre al loro utilizzo sono consolidati anche i protocolli terapeutici che vedono l’utilizzo di diuretici, ACE-inibitori, sartani ovvero antagonisti recettoriali dell’angiotensina, antagonisti dell’aldosterone e beta-bloccanti. Quando il trattamento farmacologico non è più sufficiente si vaglia la possibilità di ricorrere ai dispositivi impiantabili.

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