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Che impatto ha sulla mortalità il dolore al petto in chi ha già sperimentato un infarto? È la domanda alla quale i ricercatori che hanno analizzato i dati sanitari di oltre 18˙300 pazienti con infarto (dedotti da un registro di qualità svedese conosciuto come SwedHeart) hanno cercato di rispondere. Sorprendentemente, l’impatto del dolore al petto sulla mortalità nel post infarto non era stato ancora esaminato in modo ampio fino ad ora in studi di lungo termine. Ebbene, stando a questo lavoro, di libero accesso sulla rivista dell’American Heart Association, quasi il 45% dei partecipanti intervistati ha riportato un dolore moderato o estremo a un anno dal primo infarto, dolore che nella maggioranza dei casi s’è ripresentato a intermittenza per tutto il periodo di osservazione. A quanto ci informano i ricercatori, il dolore al petto è il segnale che più d’ogni altro deve allertare il paziente infartuato, anche se non si esclude che esso dipenda da altri motivi. Il dolore o fastidio toracico può avere diverse origini. Può essere provocato da problematiche relative al tratto digerente, ai polmoni, ai muscoli, ai nervi o alle ossa. Ma il primo elemento da escludere in caso di ripresa del dolore al petto è che si tratti di qualcosa di origine cardiaca. Specie nel primo anno, quando si è più vulnerabili alle ricadute dell’infarto. Inoltre, un dolore moderato o estremo dopo un infarto può aiutare a prevedere il rischio di mortalità per tutte le cause. Ebbene, quasi il 45% dei partecipanti allo studio ha accusato un dolore moderato o estremo un anno dopo l’infarto. Per la precisione, il 65% dei partecipanti che ha avvertito dolore al follow-up di 2 mesi lo ha sperimentato anche al follow-up di 12 mesi, il che conferma che si trattava di un dolore persistente: un dolore a lungo termine.

I pazienti arruolati erano adulti ≤ 75 anni (età media 62 anni, 75,5% uomini) che hanno avuto un infarto fra il 2004 to 2013. Fra costoro, quelli che hanno lamentato un dolore moderato hanno avuto il 35% in più di probabilità rispetto a quelli senza dolore di morire per qualsiasi causa durante il follow-up (8,5 anni). Mentre coloro che hanno riferito di un dolore estremo hanno avuto più del doppio delle probabilità di morire nello stesso periodo, anche qui rispetto ai sopravvissuti ad un attacco di cuore che non hanno avuto alcun dolore. Il tutto, a fronte della complicazione non banale che la mortalità connessa al dolore al petto nel post infarto è risultata più pronunciata rispetto a quella “scontata” che si manifesta in chi, anche dopo l’infarto, continua a fumare. Va da sé che per i pazienti con dolore cronico al petto, è di particolare importanza ridurre tutti i fattori di rischio come il fumo, l’ipertensione e i livelli elevati di colesterolo.

Non a caso, sondando lo stile di vita, il grado di istruzione e quello socioeconomico, senza dimenticare i dati antropometrici dei soggetti, è emerso che il dolore al petto è più frequentemente associabile a persone che, nel post infarto, hanno scarso riguardo di tutti o di alcuni dei fattori di rischio cardiovascolare, come il fumo, l’obesità, i bassi livelli di attività fisica, una dieta povera e una posizione socioeconomica svantaggiata, di quelle che riducono l’accesso sia alla prevenzione sia alle cure. Inoltre, un forte dolore è sempre d’ ostacolo alla riabilitazione e alla partecipazione a tutte quelle attività di protezione cardiaca come l’esercizio fisico regolare, indipendente dalle disponibilità concrete ad espletarle.

In aggiunta, al dolore cronico sono associabili altre comorbidità di natura nervosa, come ad esempio depressione e ansia, che contribuiscono ad aumentare il rischio cardiovascolare in pazienti con dolore toracico cronico.

Venendo alle conclusioni dello studio, a dire dei ricercatori, il dolore cronico al petto è altamente prevalente e i suoi effetti sulla mortalità sono maggiori del più noto fattore di rischio del post infarto rappresentato dal fumo di sigaretta. Secondo, la mortalità fra i pazienti con dolore al petto da moderato a estremo a un anno dall’infarto del miocardio è stata maggiore rispetto a quelli senza dolore, entrambi visionati per il riferito periodo di follow up di 8,5 anni. Terzo, che i medici nella gestione dei pazienti dopo un infarto miocardico dovrebbero riconoscere la necessità di associare al dolore al petto un fattore prognostico paragonabile al fumo persistente e affrontare il problema come un problema primario durante la scelta delle cure.

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