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Un aspetto molto importante del lavoro dei cardiologi è la stratificazione del rischio cardiovascolare dei pazienti che devono essere sottoposti ad interventi chirurgici. Serve a capire se l’intervento chirurgico possa scatenare disturbi del cuore e della circolazione, come infarto, aritmie, scompenso. Appare ovvio che il pericolo è concreto in chi sia notoriamente malato di cuore, ma un certo margine di rischio esiste per tutti, senza contare che qualcuno potrebbe essere affetto da qualche patologia cardiaca senza saperlo, e il controllo preoperatorio diventa l’occasione per scoprirlo.

Fino a non molti anni or sono, quasi tutti gli interventi chirurgici erano considerati troppo rischiosi per i pazienti affetti da patologie croniche non solo cardiache ma anche respiratorie o renali, o semplicemente per gli anziani: ricordo che quando io ero bambina, una cinquantina d’anni fa, a mia nonna settantacinquenne fu sconsigliato di operarsi di cataratta perché aveva sofferto di episodi di fibrillazione atriale.

Oggi le tecniche chirurgiche sono enormemente cambiate, ed il traumatismo della maggior parte degli interventi si è drasticamente ridotto: moltissime operazioni di chirurgia toracica e addominale (come la colecistectomia) possono essere effettuate attraverso tecniche mininvasive, con incisioni piccolissime, e con minima perdita di sangue. Per riprendere il mio esempio familiare, l’intervento di cataratta ai tempi di mia nonna veniva effettuato in anestesia generale, e il periodo postoperatorio prevedeva riposo forzato a letto con un ricovero di diversi giorni, mentre oggi si pratica in anestesia locale, in day hospital, e dopo poche ore il paziente se ne torna a casa camminando sulle sue gambe.

D’altra parte, anche la terapia delle patologie cardiache dispone attualmente di mezzi farmacologici e non farmacologici (pacemaker e defibrillatori impiantabili) assai potenti, che consentono di superare brillantemente situazioni che non molti anni fa si sarebbero ritenute disperate.

Paradossalmente, il fatto che abbiamo la possibilità di curare sempre di più e sempre meglio le diverse malattie non significa che le malattie stesse scompaiano: molto spesso si cronicizzano in forme tali da consentire uno standard di vita più che soddisfacente; ed infatti la vita media si allunga, ma gli anziani presentano assai spesso l’associazione di diverse patologie, certo per ragioni meramente probabilistiche: nel corso di una vita lunga, è assai probabile che presto o tardi si presentino acciacchi più o meno seri.

Dunque oramai è rarissimo che si inquadri un paziente come “inoperabile”, però è fondamentale, specialmente (ma non solamente) negli anziani, distinguere i soggetti a basso rischio da quelli ad alto rischio: in questi ultimi si dovranno, di volta in volta, effettuare terapie di preparazione all’intervento, attuare specifiche tecniche anestesiologiche, preferire opportune metodiche chirurgiche, predisporre la permanenza in una unità di terapia intensiva per qualche tempo dopo l’intervento. Ma come si inquadra il livello di rischio? Sulla base della valutazione di un gran numero di pazienti, si è cercato di individuare quali fattori, variamente associati tra loro, risultano predittivi di rischio aumentato, e sono stati proposti diversi indici che, tenendo conto di tali fattori, consentano di effettuare delle previsioni attendibili. Uno dei più utilizzati, a partire dagli ultimi anni del secolo scorso, è il cosiddetto “indice di Lee”, dal nome del medico che lo ha proposto. Viene assegnato un punto per ciascuno dei seguenti fattori di rischio: storia clinica di infarto miocardico, di scompenso cardiaco, di fibrillazione atriale, ictus cerebrale, diabete che richieda la somministrazione di insulina, insufficienza renale, necessità di intervento chirurgico complesso. Se un paziente totalizza più di due punti viene considerato a “rischio cardiologico operatorio elevato”, se ne totalizza due, a “rischio moderato”, se meno di due, a “basso rischio”. La valutazione viene con una semplice visita cardiologica con elettrocardiogramma, nel corso della quale viene accuratamente raccolta la storia clinica del paziente, che ovviamente viene invitato a produrre tutta la documentazione in suo possesso (esami clinici e strumentali, cartelle cliniche di precedenti ricoveri…); in casi selezionati, il cardiologo può decidere di prescrivere esami di approfondimento, ad esempio ecocardiogramma, test da sforzo, ECG Holter, TAC coronarica etc.

Le ultime linee guida della Società Europea di Cardiologia (ESC) sono del 2022, e ribadiscono come l’inquadramento generale del paziente candidato a un intervento chirurgico sia di competenza del medico anestesista. Tutti i pazienti dovrebbero essere sottoposti almeno ad un elettrocardiogramma, mentre la valutazione cardiologica completa viene richiesta nei pazienti che, in via presuntiva, presentino un profilo di rischio aumentato, a causa dell’età o della complessità dell’intervento o della presenza di patologie associate.

Ma nonostante la crescente rilevanza epidemiologica, a tutt’oggi l’applicazione di tali linee guida non è certo completa. Per questo l’ANMCO (Associazione Nazionale Medici Cardiologi Ospedalieri) ha deciso di organizzare una web survey tra i cardiologi ospedalieri italiani con lo scopo di conoscere quali siano i percorsi effettivamente seguiti in chirurgia non cardiaca, e di valutare l’aderenza dei cardiologi alle linee guida. La partecipazione alla survey era su piattaforma web ed anonima.

Contrariamente alle indicazioni delle linee guida, più di un terzo dei partecipanti riportava che la valutazione cardiologica precedeva quella anestesiologica e il 42% che veniva richiesta indipendentemente dal profilo rischio dei pazienti. Inoltre, l’utilizzo degli indici di rischio raccomandati dall’ESC era molto basso.

Questi risultati confermano la necessità di promuovere programmi formativi sulla stratificazione perioperatoria del rischio cardiovascolare e di aumentare la sensibilità dei cardiologi italiani su questo tema, allo scopo di migliorare l’aderenza alle linee guida.

Insomma, in questo come in molti altri campi della pratica medica, le linee guida ci sono, ma devono essere recepite ed applicate, e soprattutto umanizzate: credo che il segreto sia non sentirle come un astruso elenco di direttive da applicare, ma come un utile strumento per razionalizzare e controllare il proprio lavoro clinico quotidiano.

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