di Elisabetta Bramerio
Correre la maratona non è mai la causa di un danno vascolare prematuro. Lo afferma un nuovo studio tedesco che ha misurato la reazione delle arterie di 97 atleti, uomini d’età compresa fra i 34 e i 54 anni, che hanno corso la maratona di Monaco nel 2013 e che hanno partecipato all’incirca allo stesso numero di altre competizioni di endurance
Dove si pone il confine fra lo sforzo fisico che fa bene e quello che invece diventa dannoso per il nostro organismo? Non è la prima volta che affrontiamo l’argomento sulle pagine di questo giornale, pur avendo più volte ribadito, come fosse un mantra, che l’attività fisica è il miglior antidoto per tenere sotto controllo il peso, per abbassare la pressione arteriosa, per regolare i valori lipidici del sangue e tenere pulite le arterie. L’insieme di tutti questi benefici promuove un’azione di controllo sulle malattie cardiovascolari, come l’infarto del miocardio e l’ictus cerebrale, ma anche sul diabete e le altre malattie del metabolismo. Quindi non è mai l’attività fisica salutare a essere messa sotto accusa ma gli eccessi che caratterizzano certe pratiche sportive estreme come gli sport di endurance, vale a dire di resistenza prolungata, o di attività aerobico-anaerobico ad alta intensità.
Forse non vi è ambito della scienza motoria in cui si siano state spese più parole, messo a punto più ricerche di quello in cui sono stati indagati i benefici derivanti dall’attività aerobica e anaerobica. Sono termini, questi ultimi, che fanno riferimento alla respirazione. Aerobico significa “mediante il respiro”, anaerobico “in assenza di respiro”. A seconda della respirazione, si modifica la maniera di ricavare energia. Durante la fase aerobica, si brucia energia ricorrendo alla combustione degli zuccheri per i primi venti minuti circa. Passato questo tempo, l’energia viene attinta dalle riserve di grassi. Il tutto accade grazie al lavoro del cuore che, attraverso l’irrorazione sanguigna, fornisce l’ossigeno ai muscoli per lavorare. Nello sforzo anaerobico, al contrario, i muscoli bruciano l’energia disponibile molto velocemente, per cui il cuore non fa in tempo a soddisfare la domanda di ossigeno che occorre per trasformare in energia nuova materia combustibile, ovvero nuovi zuccheri, grassi e proteine, ragion per cui i muscoli vanno in affanno molto in fretta.
Ci sono prove schiaccianti che l’attività aerobica, là dove viene praticata con regolarità, è in grado di migliorare sensibilmente la salute, la forma fisica, lo stato mentale e tanti altri parametri del benessere delle persone. Nuotare, correre, camminare, ballare, andare in bicicletta, così come tutte le attività della sala “cardio” di una palestra (tapis roulant, bike, pedana ellittica ecc.) sono esempi eccellenti di attività aerobiche se praticate a bassa o a media intensità. Diventano attività anaerobiche se praticate ad alta intensità. Messa in questo modo, significa che non esiste un confine netto fra aerobico e anaerobico in base al tipo di esercizio o di sport. Quello che fa la differenza, facendo rientrare un’attività in un ambito o nell’altro, è l’intensità con cui l’esercizio viene portato a termine.
È almeno dal 1980 che gli studi hanno cercato di porre dei limiti all’affaticamento intenso. Da parecchie di queste indagini è emerso un aumento del rischio di insorgenza di fibrillazione atriale, ovvero una particolare forma di aritmia cardiaca che normalmente peggiora con l’avanzare dell’età. A causa degli sforzi intensi connessi con le gare di resistenza il cuore si trova a pompare sangue nelle arterie con un’intensità che risulta dalle quattro alle cinque volte maggiore rispetto a quanto accade in condizione di riposo. Un “up and down” che alla lunga, dopo anni di attività, può diventare l’effetto del troppo che nuoce, dell’affaticamento eccessivo che rende lo sport nocivo.
Il messaggio conclusivo di queste analisi è un invito alla moderazione: l’esercizio fisico regolare fa bene al corpo e alla mente, ma troppo esercizio no. Il troppo stroppia, come dice il proverbio. Troppo allenamento può essere controproducente e forse pericoloso, soprattutto se effettuato in individui scarsamente allenati e soprattutto che si somministra l’esercizio fisico senza aver fatto alcun controllo preventivo e senza che si conoscano il grado di idoneità fisica e la soglia di tolleranza allo sforzo.
Allo stesso modo, secondo un altro filone di ricerca, l’eccesso di sport alzerebbe così tanto la produzione di una particolare proteina, la troponina, da favorire l’aterosclerosi. Sì, proprio l’aterosclerosi, che solitamente viene indicata come conseguenza diretta delle peggiori abitudini comportamentali – fumo, alcol, cibi grassi ed eccesso di zuccheri – contro le quali lo sport per primo viene citato, e a ragione, come uno dei migliori deterrenti.
È largamente riconosciuto che l’aterosclerosi è un processo infiammatorio. L’ipotesi alla base di questa malattia è che il danno all’endotelio sia riconducibile a un deficit del sistema immunitario. La lesione delle arterie è scatenata dall’interazione con i fattori di rischio metabolico e dalla formazione di placche arteriosclerotiche. Le cellule del sistema immunitario vengono catturate all’interno delle arterie infiammate attraverso l’interazione con molecole e proteine con capacità aggreganti. L’infiammazione in particolare si verifica in aree dove la placca è più instabile. Non a caso, si stima che il 70% degli insulti a danno del miocardio cardiaco avvengano in aree in cui la placca è più vulnerabile. Un numero di marcatori del sangue sono stati identificati in associazione con l’infiammazione, segnatamente i globuli bianchi, le proteine C-reattive (CPR), l’omocisteina, il fibrogeno e le proteine coinvolte nella risposta immunitaria. Il CRP è il marcatore del sangue di gran lunga più indicativo di uno stato di infiammazione arterioso. In recente studio di follow-up, livelli elevati di CRP sono stati associati a un maggior rischio di danno del miocardio, di ictus e di mortalità sia nei soggetti sani sia nei pazienti con preesistente malattia cardiovascolare. La relazione fra CRP e rischio cardiovascolare si è dimostrata un fattore di rischio indipendente dai fattori di rischio tradizionali (che sono il fumo, l’ipertensione, valori lipidi fuori controllo). Altri studi hanno osservato che il CRP è di gran lunga il valore clinico più attendibile, almeno il doppio rispetto agli altri parametri, al pari delle lipoproteine a bassa densità del colesterolo HDL.
E proprio di rischio aterosclerosi torna a occuparsi uno studio tedesco, apparso a giugno di quest’anno sulla stampa scientifica, ma per sbaragliare il campo da dubbi. Il titolo, del resto, è tutto un programma. “Correre la maratona non è mai la causa di un danno vascolare prematuro”. Si tratta di uno studio prospettico e osservazionale che ha misurato, affidandosi a certi parametri clinici, la qualità delle arterie di 97 atleti, uomini d’età compresa fra i 34 e i 54 anni, che hanno corso la maratona di Monaco nel 2013 e che hanno partecipato all’incirca allo stesso numero di altre competizioni di endurance (mezze maratone, maratone e ultra maratone) correndo in media un totale di 60 km la settimana e quasi 1700 km l’anno, contando gli allenamenti. I valori arteriosi di rigidità, di spessore della tonaca intima e media e di disfunzione dell’endotelio sono stati misurati sia prima sia dopo gli eventi sportivi. Ebbene i runners tedeschi avevano questi tre valori assolutamente nella norma sia prima sia dopo le gare, per cui è non è stato possibile riscontrare nessuno peggioramento arterioso in base al numero delle competizioni e all’intensità dello sforzo necessario per allenarsi e poi partecipare alle varie manifestazioni sportive. La sola caratteristica associata ai valori pre-clinici di aterosclerosi, cioè della fase che precede la malattia conclamata, è stata l’età. «Invecchiando le nostre arterie diventano più rigide e meno elastiche – ha dichiarato alla stampa il dottor Axel Pressler dell’Università di Monaco, primo autore dello studio in questione – Il nostro studio dimostra che i runners che hanno portato a termine fino a 20 maratone non presentano una rigidità arteriosa o altri danni alle funzioni dei vasi differenti dai coetanei che ne hanno corse solo 5 o, addirittura, nessuna». Una risposta secca a quel filone di ricerca, citato nell’articolo apparso su “European Journal of Preventive Cardiology”, che invece cavalca la teoria in base alla quale fare sport per più ore al giorno e ad alta intensità avvicina il tasso di mortalità dei praticanti a oltranza a quello di chi, all’opposto, lo sport non lo fa mai, ovvero i sedentari incalliti che, per comune consenso, vanno spronati a fare attività moderata, la sola in grado di garantire risultati positivi senza effetti collaterali. A giudicare dalle conclusioni dello studio osservazionale sui maratoneti di Monaco le cose non stanno affatto così. Le valutazioni effettuate non dimostrano nessuna condizione preclinica di aterosclerosi e il basso rischio cardiovascolare che caratterizza il profilo degli atleti non è minacciato dalle ripetute performance sportive. In questa coorte di atleti di mezz’età le uniche associazioni degne di nota, in termini di danneggiamento arterioso, sono dovute all’invecchiamento, riscontrabili in qualunque persona di sesso maschile della stessa età anagrafica. Dunque gli amanti dell’endurance estremo possono stare tranquilli. Gli eventuali problemi di aterosclerosi non sono causati dal sovrallenamento.