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di Angela Nanni
L’osteoporosi è una malattia molto comune fra le donne in post menopausa e, in generale, nelle persone in età avanzata. Spesso si associa a disturbi cardiovascolari: una combinazione frutto del caso, facilitata dall’età avanzata? Recenti dati della letteratura sembrano confermare che esiste un’associazione diretta tra osteoporosi e malattie cardiovascolari

Per l’immaginario collettivo, l’osteoporosi ovvero la perdita di massa, struttura e funzionalità ossea e la propensione alle fratture, soprattutto a livello del collo del femore, dell’avambraccio e delle vertebre costituisce un problema esclusivo dell’universo femminile dopo la menopausa. L’osteoporosi, in realtà, è un problema molto rilevante anche per la popolazione maschile e, più in generale, per tutte le persone che vivono a lungo. Non è un caso, infatti, che il disturbo interessi la maggior parte delle persone con più di 80 anni, senza particolari distinzioni di sesso. Nella popolazione anziana, dunque, l’osteoporosi assume l’importanza e le dimensioni dei disturbi cardiovascolari a causa della forte diffusione. Al di là della coincidenze di morbilità, in numerosi studi scientifici è stato evidenziato come le malattie cardiovascolari e l’osteoporosi siano due problematiche interconnesse. Di recente la rivista “Journal of Bone and Mineral Research” ha pubblicato una metanalisi volta ad approfondire la relazione fra contenuto minerale osseo, identificato con l’acronimo BMD, e la presenza di fratture da fragilità e da patologie cardiovascolari. La metanalisi ha preso in esame 28 studi longitudinali, che hanno permesso di fare le pulci ai dati relativi a più di un milione di pazienti (1.170.885). La conclusione è stata che più la BMD si riduce, maggiore è la probabilità di incorrere in fratture dovute alla fragilità ossea e, parallelamente, di sviluppare patologie cardiovascolari con conseguente aumento della mortalità.  Insomma, il rischio di incorrere in patologie cardiovascolari e di mortalità correlata può dipendere da una BMD ridotta e dalla presenza di fratture provocate da fragilità ossea.

«In passato osteoporosi e aterosclerosi sono state considerate entità separate, accomunate da un’aumentata incidenza nell’invecchiamento» spiega il professor Stefano Gonnelli, docente di Medicina Interna all’Università di Siena e vicepresidente SIOMMMS (Società Italiana dell’Osteoporosi, Metabolismo Minerale e Malattie dello Scheletro) che aggiunge: «Recentemente, studi clinici ed epidemiologici hanno rilevato che, in pazienti con basso contenuto minerale osseo (BMD), il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari, eventi cardiovascolari inattesi e aterosclerosi coronarica severa è significativamente aumentato. È noto che le donne dopo la menopausa affette da osteoporosi sono sottoposte a un maggiore rischio cardiovascolare: un rischio che è secondario al grado di severità dell’osteoporosi. Nello specifico, il rischio di sviluppare malattie cardiovascolari è risultato proporzionale al numero e alla severità delle fratture vertebrali. Il riscontro di bassi valori di BMD e di fratture da fragilità, inoltre, è stato associato alla presenza di alcune alterazioni dei vasi sanguigni quali le calcificazioni vascolari, un aumento della rigidità delle pareti arteriose e la disfunzione endoteliale: tutte alterazioni che svolgono un ruolo determinante nella patogenesi delle malattie cardiovascolari».

Per quale motivo l’osteoporosi predispone ai disturbi cardiovascolari e in che modo l’arteriosclerosi e le malattie cardiovascolari potrebbero favorire l’osteoporosi e la fragilità ossea? Non esiste una risposta univoca a questa domanda, ma sicuramente entrambe le patologie sono accomunate da diversi fattori di rischio: sono più probabili nei soggetti anziani, nei fumatori, in coloro che sono scarsamente votati a svolgere regolarmente attività fisica e nelle donne dopo la menopausa. I dati scientifici a disposizione hanno evidenziato che una pressione arteriosa fuori norma, non tenuta debitamente sotto controllo con opportuna terapia farmacologica e adeguato miglioramento dello stile di vita, danneggia non solo le strutture vascolari, ma favorisce una maggiore perdita di massa ossea. A tal proposito il professor Gonnelli puntualizza: «Nei soggetti ipertesi sono stati riscontrati valori di calciuria più elevati rispetto ai controlli effettuati sui normotesi: la maggiore eliminazione del calcio per via urinaria può favorire la perdita di massa ossea. Un’altra condizione molto comune fra la popolazione generale e soprattutto in quella anziana è la carenza di vitamina D, determinata sia dal fisiologico invecchiamento, sia da una minore esposizione ai raggi solari, comune nelle persone anziane. La carenza di vitamina D predispone alla fragilità ossea e favorisce le calcificazioni vascolari, oltre ad aumentare il rischio di ipertensione arteriosa e di patologie cardiovascolari». Come se tutto ciò non bastasse, sembra che l’osteoporosi e l’arteriosclerosi condividano anche una certa predisposizione genetica. È il professor Gonnelli a dirlo: «Mutazioni con perdita di funzione del gene LRP6, per esempio, determinano nell’uomo un aumento dei livelli plasmatici di colesterolo LDL (il cosiddetto colesterolo cattivo), ipertensione e osteoporosi. Inoltre, alcuni polimorfismi nella regione promoter del gene dell’osteoprotegerina (OPG) sono stati associati al rischio di frattura vertebrale. Anche le dislipidemie, in particolare la presenza di un elevato rapporto tra colesterolo LDL e colesterolo HDL, ovvero la netta prevalenza del colesterolo cosiddetto cattivo su quello buono, sono stati proposti come possibili elementi di associazione tra arteriosclerosi e osteoporosi».

Questi dati hanno suggerito che farmaci efficaci sul metabolismo osseo potrebbero influenzare anche quello lipidico e l̓aterosclerosi. Se fosse vero, dovrebbe valere anche l’inverso, ovvero che i farmaci attivi nella terapia dell’aterosclerosi possano essere efficaci per la prevenzione delle fratture. Non a caso le statine, i farmaci più utilizzati per tenere sotto controllo la colesterolemia, e i bisfosfonati, i farmaci più usati per contrastare e contenere la fragilità ossea, sono stati oggetto di studio come possibili presidi terapeutici bivalenti, in grado di rallentare sia il processo aterosclerotico sia la perdita di massa ossea.

«Le statine, attraverso la riduzione dei livelli plasmatici di colesterolo e grazie a meccanismi parzialmente indipendenti dalla riduzione della colesterolemia» ci ricorda il nostro interlocutore «sono in grado di contenere in modo rilevante la mortalità e la morbilità cardiovascolare e di stimolare i processi di neoformazione ossea e di mineralizzazione negli animali da esperimento. In alcuni studi epidemiologici è stato riscontrato che l’uso di statine è associato a una riduzione delle fratture da fragilità. Allo stesso modo i bisfosfonati, farmaci ampiamente utilizzati nel trattamento dell’osteoporosi per la loro azione antiriassorbitiva ossea e antifratturativa, sembrano avere un’azione anti aterogena. Recentemente, uno studio condotto su donne in menopausa con osteoporosi ha documentato che lo zoledronato, un potente bisfosfonato somministrabile esclusivamente per via venosa, è in grado di ridurre il rapporto colesterolo LDL/colesterolo HDL e lo spessore medio-intimale a livello carotideo».

Si vive sempre più a lungo, ragion per cui è bene agire su tutti i fattori che possono migliorare la qualità della vita, perché è certo che nessuno vuole vivere a lungo e male. Ciò detto, l’elevata prevalenza di patologie cardiovascolari e di osteoporosi, non meno dell’alta morbilità associata a entrambe le condizioni sono fondamentali affinché la scienza si adoperi per la messa a punto di nuove strategie comuni di prevenzione. Sarebbe auspicabile trovare delle possibilità terapeutiche che giovino sia alle ossa (e quindi a tutto l’apparato locomotore) sia al cuore e alle arterie, è il parere del professor Gonnelli, che così conclude: «Le evidenze attuali suggeriscono che esiste una relazione epidemiologica bidirezionale tra osteoporosi e rischio cardiovascolare. La condivisione di molteplici fattori di rischio certamente contribuisce alla frequente osservazione nello stesso paziente delle due condizioni. La consapevolezza dei meccanismi fisiopatologici che sono alla base delle due malattie potrà aprire le porte a una conoscenza più approfondita della relazione tra apparato cardiovascolare e metabolismo osseo e, forse, permettere lo sviluppo di terapie mirate in grado di agire sia sull’arteriosclerosi sia sull’osteoporosi».

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