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di Cristina Sampiero

Lo sviluppo dei gruppi sanguigni è una conseguenza dellʼadattamento dell’uomo all’ambiente. Cibi benefici o indifferenti per i portatori di un gruppo possono essere nocivi per quelli di un altro e così via. Se i presupposti alla base della dieta del gruppo sanguigno sono veri, le conclusioni sulle quali sono stati costruiti i diversi regimi alimentari non sono provate scientificamente

Combinazioni alimentari permesse o vietate, orari per assumere carboidrati o proteine, integratori, pasti sostitutivi, cibi biologici e chi più ne ha più ne metta. In una tale mole di informazioni è intuitivo che esista scienza e… fantascienza.

Di formazione tradizionale, ho imparato che la scienza avanza a piccoli passi e non esistono soluzioni valide per tutti, ma bisogna partire dal generale per arrivare al particolare. Da dati scientifici validati devo modulare la scelta migliore per il singolo. Pertanto, ho sviluppato alcune perplessità sulla cosiddetta “dieta del Dr. Mozzi”, venuta alla ribalta in Italia e meglio conosciuta come “dieta dell’emogruppo”. Mozzi, l’americano D’Adamo e suo padre prima di lui, sostengono gli effetti benefici di un regime nutrizionale basato sul principio che a ciascun gruppo sanguigno (0, A, B e AB) corrispondano caratteristiche genetiche specifiche, modificatesi con l’evoluzione dell’uomo, le quali determinano l’alimentazione migliore per ciascuno. Lo sviluppo dei diversi gruppi sanguigni è, infatti, una conseguenza dell’adattamento dell’uomo all’ambiente. In sintesi: il gruppo 0 è il più antico e risale ai nostri antenati cacciatori e carnivori. Chi ha questo gruppo dovrebbe privilegiare alimenti proteici come carne, uova, legumi ed eliminare o quasi pane e pasta. Nella linea evolutiva segue il gruppo A, sviluppatosi con la scoperta dell’agricoltura; chi lo ha, dovrebbe seguire una dieta vegetariana, ricca di frutta, verdura e cereali. Con l’inizio delle migrazioni si è sviluppato il gruppo B, i cui portatori possono assumere latte, latticini, uova. Il gruppo AB, infine, si è sviluppato in tempi meno remoti per via delle aumentate mescolanze tra gli uomini; chi ha questo gruppo può seguire un regime con cibi sia del gruppo A che del B. D’Adamo suddivide gli alimenti in tre grandi categorie: alimenti benefici, indifferenti e da evitare. I primi sono cibi ad azione farmaceutica, i secondi sono cibi neutri, mentre i terzi sono nocivi.

Cibi benefici o indifferenti per i portatori di un gruppo possono essere nocivi per quelli di un altro e così via. Va detto che i presupposti alla base della dieta del gruppo sanguigno sono veri, ma che le conclusioni sulle quali sono stati costruiti i diversi regimi alimentari non sono scientificamente provate. A dispetto di tanta popolarità, infatti, non esistono evidenze scientifiche che confermino la validità di questa dieta mentre le evidenze sussistono nei confronti delle diete particolarmente restrittive (in questo caso, quelle per i gruppi A e 0) poiché è dimostrato che, eliminando interi gruppi di alimenti, si può avere una perdita di peso ma anche un insidioso impoverimento nutrizionale. Alcuni dubbi, poi, sono pressoché istintivi: statisticamente i gruppi sanguigni non sono pochi perché si possa caratterizzare tutta l’alimentazione in base ad essi?

Quanti di noi, facendo la spunta degli alimenti concessi/da evitare per il gruppo di appartenenza, potrebbero affermare di mangiare correttamente? Quanti, magari i più influenzabili, potrebbero essere indotti a pensare che il proprio malessere derivi dall’assumere o no quel determinato alimento?

Il gruppo sanguigno è una caratteristica genetica; nel DNA sono presenti istruzioni generiche e istruzioni altamente specifiche (le glicoproteine) come, per esempio, quelle per stabilire la compatibilità tra donatore e ricevente nel caso di trasfusioni di sangue. Negli anni Novanta si scoprì che le glicoproteine sono presenti anche nelle cellule che rivestono l’intestino e che l’attività di alcuni enzimi digestivi varia in base al gruppo sanguigno di appartenenza; si originarono così i collegamenti tra gruppo sanguigno e funzionalità dell’apparato gastrointestinale (poi smentiti da studi epidemiologici successivi più estesi) e, la distinzione tra cibi che, a seconda del ramo evolutivo di discendenza, risultano più o meno digeribili.

I gruppi sanguigni variano moltissimo tra le diverse popolazioni, senza collegamento con il tipo di dieta seguita durante l’evoluzione. Questo implica che i geni dei diversi gruppi non hanno subito una selezione, che avrebbe favorito il “migliore” in base alla dieta tipica dell’etnia di appartenenza. Quello che è successo con l’evoluzione, invece, è che si sono affermate, in seguito all’avvento di agricoltura e pastorizia, mutazioni vantaggiose, come la tolleranza al lattosio, che permette, a chi ne è portatore, di metabolizzare lo zucchero del latte, anche in età adulta.

Un’altra perplessità riguarda le lectine, proteine che assomigliano alle glicoproteine. Secondo la dieta dell’emogruppo, le lectine incompatibili con il gruppo sanguigno potrebbero scatenare reazioni di rigetto e quindi intolleranza. Resta ancora molto da capire sui meccanismi immunitari che scatenano reazioni allergiche a certi alimenti, mentre è noto che la sensibilità al glutine e la celiachia si distribuiscono equamente tra A, B, 0 e AB; questo dato, da solo, potrebbe già essere sufficiente a mettere in discussione il collegamento tra lectine e gruppi sanguigni.

Esistono quindi non poche perplessità su questo modello di dieta; va anche detto, però, che il ruolo del DNA nella dieta è oggetto di studi di ultima generazione. È la cosiddetta nutrigenomica. Siamo lontani dalla dieta redatta in base al test genetico ma, ad oggi, le uniche informazioni che si possono evincere dal DNA sono l’intolleranza al lattosio o la predisposizione alla celiachia. Attualmente, è impossibile indicare, su base genetica, quali cibi preferire, poiché le correlazioni tra DNA, obesità, metabolismo e malattie sono complesse. Si punta a studiare sempre di più i geni della flora batterica intestinale, poiché un numero crescente di ricerche indica che la lotta al sovrappeso passa da lì, dai miliardi di microrganismi che popolano il nostro intestino. Per finire, alcune brevi conclusioni personali. Formazione tradizionale e passione per il buon cibo, con tutto il suo valore identitario e affettivo, mi portano a non condividere molte delle scelte del Dr. Mozzi, anche se riconosco quanto l’argomento sia appassionante. È bello che esistano uomini che, come il padre di D’Adamo, percorrono strade nuove; ringrazio Mozzi per l’occasione di confronto datami ma confesso che il mio disagio nei confronti della dieta dell’emogruppo è sostanzialmente di tipo filosofico e pratico.

Per l’uomo, si sa, mangiare non significa solo sfamarsi. Preparare, gustare, sperimentare sapori che associano alla soddisfazione dello stomaco quella del palato sono elementi fondanti, e allora mi chiedo: quanto è applicabile, nella realtà attuale, una dieta così rigida? Quante persone che hanno famiglia, una normale vita di relazione, che lavorano, devono fare la spesa dove e quando possono tenendo d’occhio anche il portafoglio, sono davvero in grado di seguire quotidianamente i suoi consigli e farne un modello proprio, indipendente dai prodotti previsti in questa singolare dieta? Qual è l’applicabilità nel tempo di una scelta così restrittiva e piena di vincoli? In molti provano questa dieta, la gradiscono, la seguono per un po’ anche con buoni risultati ma poi, come per tutti gli altri “regimi”, la abbandonano. Quindi? È la dieta giusta? Comunque, scienza o fantascienza che sia, sono anche del parere che ognuno debba trovare la propria strada, che non esistano verità assolute e che se qualcuno si sente bene o sta meglio ed è contento…perché no?

Francamente, però, avrei meno perplessità se “compresi” in questa dieta non ci fossero anche prodotti creati ad hoc e venduti in negozi sorti, anche loro, ad hoc. Sono convinta, al di là delle evidenze scientifiche più o meno discutibili, che, la scelta più efficace e duratura sia quella di educare al gusto, alle scelte, agli acquisti consapevoli e alle scienze gastronomiche. Bisogna insegnare la salvaguardia della biodiversità e la cultura e il piacere del cibo, la qualità della vita per gli uomini, per tutti gli uomini. Credo nella necessità di dover percorrere la strada per un cibo buono, pulito ed etico perché prodotto nel rispetto degli ecosistemi e conforme ai concetti di giustizia sociale negli ambienti di produzione e di distribuzione, almeno finché la scienza non ci darà qualche certezza in più. Ma questa è una strada più ardua per chi vende e per chi compra e… in questo modo il business rischia di saltare a gambe all’aria.

di Cristina Sampiero

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