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Dal processo di degradazione della plastica si possono liberare particelle di dimensioni molto diverse. Vengono definite macroplastiche quelle di dimensioni superiori ai 2,5 cm, mesoplastiche quelle di dimensioni comprese fra i 5 e i 2,5 mm: si tratta di frammenti visibili ad occhio nudo e che normalmente vengono dispersi nell’ambiente per azione degli agenti atmosferici, vista la grande quantità di plastica che purtroppo, viene abbandonata in tutti gli ambienti. Le microplastiche, invece, hanno dimensioni inferiori ai 5 mm e le nanoplastiche inferiori ai 100 nm: si parla di frammenti più piccoli delle cellule umane e invisibili a occhio nudo. Secondo le stime disponibili ogni anno negli oceani  si riversano 2,5 milioni di tonnellate di microplastiche e di queste, 430000 tonnellate si accumulano nei Paesi Europei. La presenza di queste particelle è stata accertata in 201 specie di animali commestibili, nell’acqua potabile e in svariati alimenti destinati al consumo umano. È stato stimato che negli Stati Uniti ogni persona ingerisce, in media, da 74000 a 121000 particelle ogni anno. Osservazioni recenti effettuate su modelli animali hanno accertato che le micro e nano plastiche sono in grado di attraversare le barriere biologiche ovvero placenta e barriera intestinale e di accumularsi nell’intestino modificando la composizione del microbiota. Agli inizi di marzo di quest’anno è stato pubblicato uno studio italiano sulla rivista The New England Journal of Medicine che per la prima volta ha evidenziato  la presenza di micro e nano plastiche (MNP) nelle placche aterosclerotiche umane, evidenziando la pericolosità di tali inquinanti per la salute umana, compresa quella cardiovascolare. Lo studio italiano, coordinato dal Prof. Giuseppe Paolisso dell’Università della Campania Luigi Vanvitelli in collaborazione con numerosi enti di ricerca italiani ed esteri,  è accompagnato da un editoriale della rivista che definisce la scoperta rivoluzionaria perché fornisce per la prima volta la prova che le MNP ingerite o inalate sono associate a esiti di malattie cardiovascolari nell’uomo, indicando che le materie plastiche hanno costi sempre più elevati, ormai visibili, per la salute umana e l’ambiente. Lo studio è andato ad analizzare la composizione delle placche ateromatose  ossia gli accumuli di grasso che vanno a ostruire in maniera più o meno completa le arterie rimosse in oltre 300 pazienti asintomatici attraverso endoarterectomia: di questi pazienti 257, tutti di età superiore ai 65 anni,  hanno completato il follow up di 34 mesi. Dall’analisi delle placche è emerso che in più della metà  era rilevabile una contaminazione fatta di particelle di polietilene, la microplastica più presente e cloruro di polivinile ovvero Pvc, presente in misura minore. Polietilene e Pvc sono materiali largamente utilizzati nella realizzazione di prodotti che spaziano dai contenitori per alimenti ai rivestimenti, dalle pellicole plastificate a materiali per l’edilizia. Le persone con i maggiori livelli di MNP nelle arterie sono quelle che hanno evidenziato  un rischio almeno raddoppiato di avere un ictus, un infarto o di morire prematuramente per qualsiasi causa nei successivi 34 mesi di follow-up, rispetto a coloro che avevano placche prive di contaminazione da plastica. «Al microscopio elettronico siamo riusciti anche a osservare la presenza di particelle di plastica all’interno dei macrofagi, che riconoscono la molecola come estranea e provano, senza successo, a digerirla ed eliminarla», ha spiegato Raffaele Marfella, dell’Università della Campania “Luigi Vanvitelli” di Napoli.  Ad oggi non si conoscono  quali siano i livelli di plastica sufficienti a creare l’ambiente infiammatorio nelle placche e per quanto tempo queste sostanze debbano essere presenti nell’organismo prima di causare danno.

La pulizia delle microplastiche nei mari è una sfida complessa e richiede sforzi a livello individuale, comunitario e globale per affrontare il problema all’origine ovvero ridurre in maniera significativa le micro e le nanoplastiche nell’ambiente. Per farlo in maniera concreta è stata coniata la regola delle tre erre Ridurre, Riutilizzare e Riciclare.

Enrico Davoli, ricercatore presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche “Mario Negri”  di Milano, ha suggerito che la erre di Ridurre potrebbe essere trasformata nella erre di Rifiutare: all’ambiente gioverebbe moltissimo se tutti rifiutassimo bicchieri, vaschette, confezioni, sacchetti in plastica se non strettamente necessario. Per ridurre in maniera tangibile la presenza di microplastiche negli oceani si può:

  1. Ridurre l’uso di plastica monouso, di prodotti come bottiglie di plastica, sacchetti e stoviglie usa e getta per cercare di ridimensionare la quantità di plastica che finisce nell’ambiente e che alla fine diventa microplastica;
  2. Riciclare correttamente i rifiuti di plastica e smaltirli in modo responsabile.
  3. Migliorare il trattamento delle acque reflue, investendo in sistemi di trattamento più avanzati ed efficaci in grado di rimuovere le microplastiche dalle acque prima che vengano scaricate nei sistemi idrici. Questo può essere fatto attraverso l’installazione di filtri adeguati e mediante altre tecnologie di purificazione.
  4. Promuovere la ricerca e l’innovazione, sostenendo lo sviluppo di tecnologie innovative per rimuovere le microplastiche dagli oceani. Ci sono diverse soluzioni proposte, come sistemi di filtraggio ad alta efficienza o l’uso di nanomateriali per intrappolare le microplastiche.
  5. Educare e informare sull’impatto delle microplastiche, insegnando quali sono le azioni a livello individuale per ridurre l’inquinamento da plastica. Sensibilizzare sull’uso consapevole della plastica, sul riciclo e sull’importanza di preservare l’ambiente marino per imparare a comportarsi responsabilmente a lungo termine.
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