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di Alberto Ferrari

Ascoltare i pazienti in ciò che raccontano della loro condizione, senza porre limiti al loro flusso di coscienza, è l’atteggiamento giusto da seguire. Questo è quello che cerca di fare la medicina narrativa “inventata” da Rita Charon. Al pari di un qualsiasi lettore, il medico è in grado di cogliere nelle narrazioni dettagli ai quali il paziente autore non aveva neppure pensato. L’importante è che le storie vengano accolte per quello che sono, sempre. Il paziente che le propone non si deve sentire giudicato ma accettato

Come molte creature che prosperano in salute, la medicina narrativa viene concepita e si sviluppa per volontà e cure amorevoli di un padre e di una madre. Nel primo caso, il seme dell’intuizione folgorante lo si attribuisce a un padre nobile, l’insigne neurologo e dotatissimo scrittore Oliver Sacks. Nel secondo, gestazione, svezzamento e crescita sono il frutto di un concepimento bello e buono da parte di un altro medico newyorkese, va da sé una dottoressa, un’internista con la passione per la letteratura, la narrativa soprattutto, Henry James in particolare: Rita Charon.
Oliver Sacks è lo scrittore che ha raccontato i casi clinici di pazienti con disturbi neurologici conquistando milioni di lettori in tutto mondo, molti dei quali, in seguito, impareranno ad apprezzarlo per altri scritti: dalle trattazioni in cui dà prova di essere un eccellente divulgatore scientifico tour court, ai libri – a parere di chi scrive, sublimi – di marcata impronta autobiografica. Il più celebre dei suoi saggi che hanno per oggetto i casi clinici è sicuramente quello in cui racconta come la sperimentazione, suggerita dal caso, di un dato farmaco (L-dopa) abbia avuto il potere di svegliare da un sonno profondo di quasi mezzo secolo alcuni pazienti affetti da encefalopatia letargica. La malattia, di origine virale, fu una conseguenza di una pandemia che si diffuse negli Stati Uniti fra il 1916 e il 1927 e che colpì oltre cinque milioni di persone. Del libro esiste una trasposizione cinematografica altrettanto accattivante, “Risvegli”, con Robert De Niro nei panni di uno dei pazienti, e Robert William in quelli del dottor Sacks.
Questa e altre trattazioni di casi clinici vengono oggi classificate come esempi di cartella parallela ante litteram. E qui corre l’obbligo di parlare della madre della medicina narrativa, la Rita Charon che ha teorizzato la cartella parallela come uno degli strumenti a disposizione del medico nell’approccio narrativo alla medicina. Scrivendo la cartella parallela accanto a quella clinica, il medico s’interroga sullo stato psicofisico del paziente e su come lo stia curando, nella prospettiva di migliorare la cura, ridurre il proprio burnout e, se capita, mettere a punto suggerimenti utili ad altri colleghi per i loro pazienti.
L’occasione di parlare della Charon è altresì stimolata dalla recente traduzione italiana del suo libro sulla medicina narrativa, verso il quale tutti coloro che oggi si occupano di questa disciplina a vario titolo hanno un debito di riconoscenza, quanto meno intellettuale. “Medicina Narrativa – Onorare le storie dei pazienti” (Raffaello Cortina Editore, Milano 2019) esce a 13 anni di distanza dall’originale in lingua inglese. Sfogliando il testo della Charon che cosa vien voglia di sottolineare di notevole? Che non esistono cure adeguate se i pazienti vengono abbandonati alla paura e alla sofferenza.
Che ogni narrazione rivela cose che non sapevamo di sapere; è sufficiente prendere carta e penna, avere una traccia da seguire, per rendersene conto.
Che la distinzione fra pazienti e resto del mondo non ha ragione di essere posta. La Charon, a questo proposito, cita l’esempio dei giovani medici che, a inizio di carriera, si sottopongono a turni estenuanti perché sono sorretti dalla credulità indotta di essere immortali e immuni dalle malattie che stanno curando, mentre, piuttosto, è vero il contrario, e cioè che il brutto momento di una diagnosi tocca a tutti, medici compresi, «che nessuno è immune, che non è mai facile».
Che ascoltare i pazienti in ciò che raccontano della loro condizione, senza porre limiti al loro flusso di coscienza, è l’atteggiamento giusto da seguire.
Che come ogni lettore, il medico è in grado di cogliere nelle storie dei dettagli ai quali il paziente autore non aveva neppure pensato.
Che le storie vanno accolte per quello che sono, sempre. Che chi le propone non si deve sentire giudicato ma accettato.
Che la narratologia, la disciplina che ha cercato di fare distinzione fra voce narrante, punto di vista, storia, racconto e narrazione, può tornare utile per individuare la stratificazione dell’io all’interno di ogni narrazione. Nell’istante in cui parliamo di una vicenda che ci ha visti protagonisti, bisogna fare attenzione ai differenti “Sé” che sbucano come funghi. Non vale solo la distinzione dettata dalla linea del tempo: il bambino, il giovane, l’adulto che parla, ma il continuo accavallarsi dei giudizi, delle differenti visioni del mondo per ciascuna di queste personalità complesse.
Che molti romanzi e racconti si sono interrogati, hanno messo al centro dell’esperienza umana la malattia, fornendo risposte non banali su cui riflettere. Non a caso “humanities” come la biblioterapia sono diventate un valido supporto per chi pratica medicina narrativa. Dalla lettura condivisa di un’opera, nascono spunti che aprono la mente in chiave autobiografica ai partecipanti.
Ma, a mio modesto avviso, l’insegnamento più è importante è che chi come il medico, l’infermiere, il caregiver, il membro di associazione di pazienti prende parte a una sessione di medicina narrativa con il compito di stimolare e raccogliere le testimonianze altrui, deve dare prova in prima persona di essere capace a mettersi in gioco senza riserve o pregiudizi. Come? Raccontando anche dei propri fallimenti, umani e professionali. Ovvio che scavando intimamente escono materiali molto sensibili, materiali che ciascuno, normalmente, ha poca voglia di raccontare anche a se stesso. Ma non è alzando muri di reticenza che ci si conquista la fiducia degli astanti. La Charon in questo libro cita più di un episodio in cui l’esperienza l’ha vista soccombente. Non è da meno il suo mentore Oliver Sacks. Chi avesse l’occasione di leggere la sua autobiografia (“In Movimento”) scoprirebbe che l’insigne neurologo, a inizio di carriera, aveva seri problemi di dipendenza da sostanze psicotrope e, se non fosse stato per il sostegno e la comprensione psicologica offertagli da un’amica, che l’ha aiutato nel percorso di disintossicazione, forse non avrebbe fatto molta strada, da allora. Onestà intellettuale, quindi, e fiducia verso l’ignoto, che le nostre debolezze possono diventare la nostra forza.

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