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Il consumo di cannabis raddoppia il rischio di ammalarsi di infarto del miocardio in chi ha fra i 18 e i 44, un’età, di regola, considerata non a rischio per questa evenienza cardiovascolare. Lo sostengono le conclusioni di uno studio appena pubblicato su il «Canadian Medical Association Journal». Gli autori hanno reinterpretato i dati che negli USA vengono raccolti annualmente nei centri per il controllo e la prevenzione delle malattie (CDC). Ebbene, volgendo lo sguardo ai numeri del biennio 2017-2018, hanno notato che degli oltre 33 mila adulti fra i 18 e i 44 anni posti sotto osservazione, il 17% aveva dichiarato di aver fatto uso di marijuana negli ultimi 30 giorni. Focalizzandosi sulle differenze fra consumatori e non, hanno rilevato che l’1,3% dei consumatori (61 di 4610) è stato ricoverato per infarto del miocardio, di contro allo 0,8% (240 su 28563) dei non fumatori. Stando all’identikit del consumatore abituale di marijuana è emerso che si tratta di un individuo maschio, fumatore abituale di sigarette o di vaporizzatori e forte bevitore di alcolici. Come a dire, che con fumo, alcol e marijuana se la sarebbe andata a cercare, di ammalarsi d’infarto? Può darsi. Tuttavia, gli autori hanno considerato l’evenienza di questi concomitanti fattori di rischio, “addomesticandoli” da un punto di vista statistico, allo scopo di isolare il più possibile l’incidenza del fattore che volevano investigare nel loro studio: il consumo di marijuana, appunto. Inoltre, a dimostrazione dell’appropriatezza del metodo di interpretazione, si sono affrettati ad aggiungere che non è il processo di combustione l’indiziato numero uno, ma la marijuana in quanto sostanza, poiché fra i consumatori andati soggetti ad infarto, non tutti avevano dichiarato di averla fumata. Com’è noto, c’è chi la marijuana preferisce assumerla attraverso il cibo, o anche attraverso il cibo, oppure se la fuma, ricorre ai vaporizzatori che riducono di molto i rischi connessi alla combustione caratteristica del fumare in senso proprio.
Non sono mancate le osservazioni sul pericolo connesso alle politiche di liberalizzazione. Nel senso che gli autori, nel commentare la loro ricerca sulla stampa generalista, non hanno mancato di ricordare che si sta liberalizzando una sostanza senza sapere per filo e per segno che impatto può avere sulla salute cardiaca della popolazione. Verissimo, ma chi ha un approccio meno dogmatico verso questa sostanza psicotropa, potrebbe ribattere che ci sono fior di studi che hanno dimostrato, e ormai in maniera incontrovertibile, che la marijuana è un presidio medico per molte malattie che chiamano in causa il sistema nervoso nell’accezione più ampia del termine. In Italia, per esempio, l’uso terapeutico della marijuana è ammesso dalle leggi dello Stato mentre quello ricreazionale no, anche se ultimamente il numero di coloro che la vorrebbero legalizzare per il secondo uso appare preponderante, se non tra le forze politiche, quanto meno tra l’opinione pubblica. Detto questo, si potrebbe obbiettare che alcol e fumo di tabacco non sono che due delle sostanze ampiamente ammesse al consumo senza restrizioni di sorta, quantunque la scienza abbia da tempo messo in guardia contro i danni diretti che essi provocano sulla salute.
Ciò detto, guardando i numeri della ricerca un po’ più da vicino, a parere di chi scrive, risulta che i casi attivi di infarto per colpa della marijuana non siano poi così tanti. Poco importa se sono quasi il doppio rispetto a quelli riscontrabili fra i non fumatori. 61 casi su 4610 non sono un numero così allarmante. E poi, dove sta scritto che i danni del miocardio siano il frutto di comportamenti a rischio degli ultimi trenta giorni che precedono il ricovero in PS per infarto? Se c’è una cosa che chi si occupa di prevenzione cardiovascolare ha imparato, è che la prevenzione è connessa con lo stile di vita e che quest’ultimo non è mai quello dell’ultimo momento. Lo stile di vita è la somma dei comportanti adottati lungo la china di un periodo temporale, va da sé, più lungo di un mese, durante il quale non sempre le scelte adottate sono state univoche. Vogliamo dire, che ai comportamenti virtuosi possono essere subentrati quelli che lo sono stati meno, e che capire che cosa va veramente storto in caso di infarto del miocardio non può essere affidato alla logica, troppo semplicistica, del questo sì e questo no.
Vi è un altro aspetto che lo studio non chiarisce e che forse potrebbe essere dirimente per la valutazione dei risultati dell’impatto della cannabis sull’organismo. Lo studio non chiarisce attraverso quali meccanismi la marijuana sarebbe dannosa, posto che la combustione dell’atto di fumare non è l’indiziato principale. Sappiamo che la marijuana, per l’effetto che il THC ha sul sistema nervoso, è in grado di alleviare i danni da stress postraumatico, ma non è noto, o non ancora, perché sia negativa per il cuore. O meglio, non facciamo fatica a immaginarlo, se pensiamo all’abuso di questa sostanza. Ma come l’alcol non può essere tacciato di essere la causa di una malattia cardiovascolare, bensì il suo abuso, crediamo che lo stesso parametro debba valere anche per la marijuana.

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