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3-5-2020

Che fine han fatto tutti? Si chiede il protagonista dell’omonimo racconto di Raymond Carver quando è solo e non sa più a che porta bussare. Ecco, se ci poniamo la stessa domanda, con lo stesso tono costernato, a beneficio di noi tutti che fino a un paio di mesi fa il Covid-19 non sapevamo neppure cosa fosse, è lecito sapere che fine han fatto tutti i pazienti che di regola allungavano per mesi le liste d’attesa e oggi, invece, sembrano spariti nel nulla, evaporati nella marea dei Covid? Che ne è degli oltre 370 mila casi di tumori maligni del 2019, degli oltre 500 mila pazienti che, secondo l’osservatorio di epidemiologia dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS), si ammalano mediamente d’infarto e ictus in Italia? Sappiamo che esami e trattamenti di riabilitazione non urgenti sono stati sospesi al momento di massima pressione negli ospedali, per una questione di sicurezza dal Covid e di carenza di spazi e di personale, e che vengono riproposti in reparti dedicati mano a mano che si ritorna alla normalità. Sappiamo che infarti, ictus e neoplasie vengono trattati in hub specifici, specie in Lombardia, dove il Covid ha picchiato più duro che altrove e dove, per fortuna, vi sono alcune tra le migliori realtà specialistiche, come l’ospedale Monzino per la cura di ictus e ischemie cardiache, l’Istituto Nazionale dei Tumori (INT) e l’Istituto Europeo di Oncologia (IEO) delle neoplasie. Altrove, sono stati mantenuti dei reparti, giusto per tamponare l’emergenza.

Qualcosa tuttavia non deve essere andato per il verso giusto, quanto meno sul piano della comunicazione. Il dato condiviso dalle cardiologie interventistiche è che, da inizio Covid, la mortalità per infarto acuto è aumentata del 40%. I pazienti arrivano in condizioni sempre più gravi perché, a causa del virus, chiunque tende a rimandare il più possibile l’arrivo in pronto soccorso. Solo che, chi è colpito da infarto, per ogni minuto di ritardo rischia di vedersi compromessa l’efficacia dell’angioplastica salvavita (stent). A causa del perdurare di questa situazione, il Monzino è stato il primo a lanciare un appello incoraggiando i pazienti con classici sintomi di costrizione al petto a non esitare e presentarsi subito in ospedale, dove viene garantito un percorso diversificato. Ogni accesso passa attraverso un triage di controllo. Chi  manifesta sintomi febbrili anche lievi e non è in condizioni cardiache critiche, viene mandato a casa e inviato ripresentarsi 14 giorni dopo. Chi invece accede in condizioni d’emergenza, viene indirizzato all’intervento idoneo in base al risultato del triage. Il massimo delle difficoltà di gestione si verifica quando, al controllo della TAC, i pazienti sono già positivi alla polmonite da Covid, pur in assenza di sintomi respiratori.

Un altro fattore che la dice lunga sullo scenario peggiore, è quello che ha portato le terapie intensive all’intasamento di pazienti Covid. Ci sono studi che hanno analizzato i dati di alcuni paesi europei e degli Stati Uniti concludendo che, a causa dei troppi Covid nelle terapie intensive, l’attività di angioplastica s’è ridotta sensibilmente. In Spagna, fino al 40% al momento di massimo assedio Covid delle ICU. Meno incisiva invece, l’occupazione delle terapie intensive per la pratica della chirurgia oncologica. A quanto affermano gli esperti, questo reparto è meno frequentato dai pazienti con neoplasie, il cui rischio maggiore si concretizza al momento dell’ingresso in ospedale. Data la difesa immunitaria azzerata, totalmente nei leucemici, la maggior parte di questi pazienti è a rischio altissimo di fragilità di fronte al virus. Ma solo una minima parte dei trattamenti si può rimandare o, come nel caso del secondo parere, delegare in via telematica. «Tutti i pazienti oncologici candidabili a un intervento chirurgico, specialmente se salvavita, continuano a riceverlo», ha precisato il responsabile della chirurgia oncologia dell’INT Alessandro Gronchi. Per tutti gli altri ci si organizza caso per caso. Quando è possibile, si praticano dei “trattamenti ponte” in base ai quali la malattia viene congelata ricorrendo alla radioterapia o a farmaci in grado di bloccare il tumore in attesa dell’asportazione. L’accesso negli ospedali oncologici resta contingentato. Il paziente è invitato a presentarsi da solo. L’accompagnatore è ammesso solo per chi non è autosufficiente. Ciò nonostante all’IEO assicurano che tutti i pazienti vengono accolti, senza distinzione fra chi è in fase di accertamento e chi, invece, sta per essere sottoposto a terapia programmata. Per quei pazienti oncologici che si domandano se non è il caso di posticipare il più possibile, per lo meno con gli esami e le visite di controllo, l’invito dei medici è di lasciare che siano loro a decidere di volta in volta. Sebbene l’emergenza imponga di salvaguardare il paziente dal contagio del virus, diagnosi e trattamenti oncologici mantengono lo stesso impatto salvavita che hanno sempre avuto. Ad esempio, guai se il tumore della mammella smettesse di essere diagnosticato precocemente, ne andrebbe della sopravvivenza di molte pazienti. Lo stesso dicasi per colon-retto, polmone e prostata. Oppure se il trattamento del tumore al polmone, la neoplasia con il più alto tasso di letalità, subisse uno stop and go non contemplato nei protocolli.

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