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di Alberto Ferrari

Nel testo che presentiamo si parla di cachessia e stato edematoso ma, strano a dirsi, il libro s’inserisce nel filone storiografico dei crimini commessi in Italia e nelle colonie durante il ventennio fascista. Il maggior esponente di questi studi è il professor Angelo Del Boca. Del Boca ha ricondotto Mussolini, i fascisti e lo stato maggiore dell’esercito italiano alle loro indiscutibili responsabilità genocide per i massacri compiuti, oltre che nei territori jugoslavi occupati di cui parliamo in questa sede, in Libia, in Etiopia ed Eritrea dalla metà degli anni trenta fino al termine del conflitto mondiale

Con il termine cachessia si è soliti indicare una condizione di forte dimagrimento conseguente a malattia grave o a denutrizione. Sia il paziente che non riesce più a nutrirsi, sia il malcapitato che sta sperimentando la fame diventano pelle e ossa. Questa condizione di estrema magrezza è irreversibile e fatale. Cioè la morte sopraggiunge per il blocco di uno degli organi vitali, più spesso il cuore o i polmoni. Talvolta la cachessia può trasformarsi in uno stato edematoso, parziale o generalizzato, a causa del quale il soggetto tende a gonfiarsi fino ad assumere l’aspetto inatteso di persona più grassa che magra. La ragione di questo gonfiore risiede nel mancato drenaggio dei liquidi nel sistema linfatico e nel sempre più scarso ricambio del sangue nel sistema arterioso e venoso. Questi liquidi non circolano più come dovrebbero per colpa di cuore e polmoni che stanno funzionando malamente.

Per risalire alla cachessia e allo stato edematoso dovuti a carestia alimentare in Italia, dobbiamo fare un salto cronologico di settant’anni e andare ai tempi della Seconda Guerra Mondiale. Nel triennio 1941-43, per espresso desiderio di quel grande statista che fu Benito Mussolini [sic!], l’Italia fascista istituì dei veri e propri campi di concentramento allo scopo di ripulire i territori del confine orientale dalle cosiddette popolazioni allogene, ovvero le minoranze etniche dalmate e croate, serbe e montenegrine, rom ed ebree. Con la scusa di fare terra bruciata intorno ai “briganti”, ossia ai partigiani jugoslavi contro i quali l’esercito italiano era in guerra sul fronte orientale, molte città e paesi di quei territori vennero distrutte e i residenti, compresi donne, vecchi e bambini, deportati in tendopoli e baraccopoli improvvisate che erano dei veri e propri campi di detenzione, con tanto di filo spinato intorno. Gli internati vennero suddivisi in “repressivi” e “protettivi”. I primi venivano considerati dei fiancheggiatori dei partigiani jugoslavi, i secondi gente che andava protetta dalle possibili rappresaglie di quest’ultimi. Un bel modo quello di proteggere degli individui internandoli nelle decine di campi di concentramento sparsi per tutta la penisola e sottoponendoli alla fame. Sì, perché la sorte dei “protettivi” non fu molto diversa da quella dei “repressivi”. Entrambi furono portati a morire di stenti e malattie, a causa delle condizioni igieniche disastrose, del freddo e della cronica carenza di cibo a cui furono intenzionalmente sottoposti. Condizioni che il grande statista di cui sopra e lo stato maggiore che lo affiancava conoscevano benissimo. «Logico e opportuno che campo di concentramento non significa campo di ingrasso. Individuo malato = individuo che sta tranquillo» è scritto, con impareggiabile cinismo, in un appunto manoscritto di uno dei generali dell’esercito italiano che ebbe un ruolo di primo piano nella gestione di questi veri e propri lager. A ricordarcelo è il libro storiografico “Larger italiani”, di Alessandra Kersevan, pubblicato qualche anno fa (2008) ma sempre di drammatica attualità, vista la tendenza odierna a credere che gli italiani, in fondo in fondo, non si sono macchiati di grossi crimini nel recente passato di alleati dei nazisti.

«La fame e il freddo patiti dagli internati in tutti i campi di concentramento – sostiene Alessandra Kersevan – sembrano dunque il risultato non solo di oggettive difficoltà di rifornimento, o di ruberie a tutti i livelli, o di speculazioni delle ditte fornitrici, ma anche di un disegno dei massimi comandi dell’esercito e del regime fascista, che impartivano precisi ordini ai comandanti dei campi».

Il libro della Kersevan s’inserisce nel filone storiografico inaugurato da Angelo Del Boca, il maggiore esperto italiano dell’Italia delle colonie, che per primo ha ricondotto Mussolini e il fascismo alle loro indiscutibili responsabilità genocide per i massacri compiuti, oltre che nei territori jugoslavi occupati, in Cirenaica (Libia), in Etiopia ed Eritrea a cavallo della Seconda Guerra Mondiale. Altro che “Italiani brava gente” come si è a lungo pensato e scritto, complice i governi del dopoguerra che, pur di sottrarre il nostro Paese al peso economico dei risarcimenti, hanno spesso minimizzato e misconosciuto l’operato dei nostri soldati e di chi dava loro gli ordini all’epoca del conflitto bellico e dell’alleanza con Hitler.

Ma quanti slavi e rom sono morti nei lager italiani? Stando alle valutazioni messe insieme con pazienza dagli storici, sarebbero oltre 4 mila. Cifra stimata per difetto, in quanto non sono stati conteggiati coloro che morirono a causa del protrarsi delle condizioni di salute deficitarie, dopo l’8 settembre del 1943, data che coincise con l’Armistizio e la chiusura dei campi. «Nei 18 mesi o poco più – scrive la Kersevan – si svolge una tragedia che vede l’internamento di oltre 100 mila persone dei territori jugoslavi occupati, e la morte per fame e malattie di alcune migliaia di essi»

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