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di Alberto Ferrari

Dove si trova il confine fra lo sforzo fisico che fa bene e  quello che invece diventa dannoso? La domanda viene posta sapendo di toccare un tema hot per gli sportivi di  high-endurance, ovvero per coloro che sono soggetti ad affaticamento fisico intenso sia che camminino, che corrano, che nuotino, che vadano in bicicletta, che sciino e via  discorrendo. Sappiamo che sono parecchi gli studi che hanno posto dei limiti precisi a questo tipo di affaticamento

noto sportivo

Non ci sono più scuse per non fare sport. Non passa giorno in cui sui mass media non venga data notizia di qualche ricerca scientifica che abbia vagliato le condizioni di salute degli sportivi per concludere che lo sport aiuta a mantenersi in salute e a vivere più a lungo. È un dato ormai assodato che lo sport sia un ottimo metodo per smettere di fumare, per tenere sotto controllo il peso, per abbassare la pressione arteriosa, per regolare i valori lipidici del sangue e tenere così pulite le arterie. L’insieme di tutti questi benefici promuove un’azione di controllo sulle malattie cardiovascolari, come l’infarto del miocardio e l’ictus cerebrale, ma anche sul diabete e le altre malattie del metabolismo, tanto per restare legati alle patologie discusse sul nostro giornale. Eppure, la scienza che non si accontenta dei propri risultati ha saputo mettere in discussione anche lo sport. Del resto, la domanda sorge spontanea. Se è noto che venti minuti al giorno di attività fisica possono bastare per mantenersi in forma, purché accompagnati da un’alimentazione con il giusto apporto calorico, resta da chiedersi quando la pratica sportiva sia da considerarsi eccessiva. In altre parole, c’è un punto, una prassi, un’attività motoria in cui lo sport smette di essere utile per manifestare invece segni di valore opposto? O, meglio ancora – per citare il dottor Christian Schmied della clinica universitaria di Zurigo, in un articolo apparso di recente su Openheart – dove risiede il confine fra lo sforzo fisico che fa bene e quello che invece diventa dannoso? La domanda viene posta sapendo di toccare un tema hot per gli sportivi di high-endurance, ovvero per coloro che sono soggetti ad affaticamento fisico intenso sia che camminino, che corrano, che nuotino, che vadano in bicicletta, che sciino e via discorrendo. Sappiamo che sono parecchi gli studi che hanno posto dei limiti precisi a questo tipo di affaticamento. Da queste indagini è emerso un aumento del rischio di insorgenza di fibrillazione atriale, ovvero una particolare forma di aritmia cardiaca, destinata a peggiorare con l’avanzare dell’età. Ebbene, la risposta al quesito di cui sopra, viene ricavata dall’editorialista di Openheart parafrasando il motto di Paracelso, il medico vissuto all’epoca del Rinascimento e autore di un trattato di medicina molto famoso. Secondo Paracelso, citato dal cardiologo svizzero, “tutto è veleno e niente è privo di effetti tossici, solo la dose rende tossico o non tossico un elemento”. A causa degli sforzi intensi connessi con le gare di endurance, il cuore si trova a pompare sangue nelle arterie e nelle vene con un’intensità che risulta dalle quattro alle cinque volte maggiore rispetto a quanto accade in condizione di riposo. Un “up and down” che alla lunga, dopo anni di attività, può diventare l’effetto del troppo che stroppia, dell’affaticamento eccessivo che rende lo sport nocivo. Allo stesso modo, l’eccesso di allenamento alza così tanto la produzione di una particolare proteina, la troponina, da favorire l’aterosclerosi. Sì, proprio l’aterosclerosi, al pari delle pessime abitudini comportamentali – fumo, alcol, cibi grassi ed eccesso di zuccheri – contro le quali lo sport per primo viene citato, e a ragione, come uno dei migliori deterrenti. Una tesi ancora tutta da dimostrare scientificamente, sostiene il dottor Fabio Mori, responsabile del reparto di cardiologia dell’ospedale Careggi di Firenze, giacché “non vi sono dimostrazioni che l’attività fisica favorisca l’aterosclerosi e le sue conseguenze. Effetti pro-aritmici dell’attività fisica si manifestano se vi è una sottostante cardiopatia, magari non diagnosticata”.

Piuttosto, molti casi di aterosclerosi negli atleti che praticano sport di resistenza sarebbero da iscrivere a un malinteso su cosa è concesso e cosa no a uno sportivo in termini di comportamenti individuali. In altre parole, molti di questi sportivi si danno alla bella vita a tavola, con la scusa che tanto fanno sport e quindi non corrono il rischio di ingrassare. È quanto si legge in un articolo pubblicato dal «Wall Street Journal», nell’ambito di una ricerca dal titolo molto eloquente, ovvero “Why Runners Can’t Eat Whatever They Want” (Perché gli atleti non possono mangiare tutto quello che vogliono), in cui i medici interpellati hanno ribadito che lo sportivo ha l’obbligo di adottare un’alimentazione controllata sotto l’aspetto calorico se non vuole incorrere in un aumento dei livelli di placca coronarica.

Eppure, tante altre evidenze scientifiche quanto meno sconsiglierebbero agli sportivi di minimizzare i rischi di una pratica sportiva altamente usurante. A questo riguardo, è utile citare un recente studio italiano che ha indagato le conseguenze sugli sportivi dediti alla half-marathon. Più precisamente, è stato osservato un gruppo di atleti amatoriali subito dopo una gara di mezza maratona e poi a distanza di un mese. “Abbiamo riscontrato a fine gara – ci ha spiegato la dottoressa Laura Adelaide Dalla Vecchia, coautrice dello studio apparso anch’esso su Openheart (Novembre 2014), e specialista in cardiologia presso la clinica Maugeri di Milano –  che gli atleti hanno una lieve alterazione della funzione diastolica del ventricolo sinistro, cioè della proprietà di rilasciamento e di riempimento di questo ventricolo, e un netto aumento dell’attività simpatica del cuore, cioè dell’attività di regolazione nervosa di tipo eccitatorio che per esempio fa aumentare la frequenza cardiaca e la capacità di contrarsi delle cellule miocardiche”.

È noto da tempo che dopo una gara tipo la maratona vi sono modificazioni della funzione cardiaca, soprattutto per quanto riguarda il ventricolo destro e le proprietà diastoliche del ventricolo sinistro. Ed è a causa di queste alterazioni che si verificano i casi di fibrillazione atriale. “Mentre i segnali eccitatori sono importanti durante la gara – ci spiega Dalla Vecchia – in quanto permettono di sostenere lo sforzo fisico, non dovrebbero più essere presenti una volta che la gara è terminata e l’atleta sta riposando. In questo caso potrebbero addirittura essere dannosi”. Tuttavia, per sottoscrivere in pieno il rapporto di causa effetto fra le alterazioni a carico dei due ventricoli cardiaci e l’aumentata insorgenza di fibrillazione atriale bisogna aspettare altri studi scientifici di consolidamento, sembra suggerire il buon senso. “Da questo studio possiamo solo dire – precisa Dalla Vecchia – che la mezza maratona, sebbene molto meno stressante rispetto la maratona, dà comunque degli effetti sul cuore e che sono necessari ulteriori studi di approfondimento”.

In assenza di evidenze scientifiche schiaccianti, “il messaggio che deve passare – a giudizio di Dalla Vecchia – è che ogni atleta deve essere necessariamente valutato da un medico dello sport per mettere a punto un programma di allenamento e il tipo di sport più adatto, tenendo conto non solo delle caratteristiche cardiovascolari individuali, ma anche dell’età, dei fattori di rischio, del sesso, della massa corporea…” Il che è possibile se, prima di iniziare un’attività sportiva, l’atleta si sottopone a un’attenta valutazione medica. Tutti gli atleti, nessuno escluso. “È importante che si facciano controllare periodicamente anche gli atleti che fanno attività fisica da sempre – precisa Dalla Vecchia – perché nel tempo le cose possono cambiare e a ogni età potrebbe corrispondere un’attività fisica diversa da quella praticata in precedenza”.

Ma nel concreto, quali sono gli esami e la prassi cui si sottopone l’atleta degli sport di resistenza a elevato impegno cardiovascolare? “Quando si decide di affrontare questo tipo di attività – dice Fabio Mori – sono indispensabili due condizioni. All’inizio, prima di iniziare un qualsiasi programma di allenamento, occorre una valutazione di idoneità sportiva che comprende una visita medica generale, una valutazione cardiologica con ECG, un test da sforzo, un ecocardiogramma; questo almeno nei soggetti con più di 40 anni d’età, ma ultimamente, si adotta lo stesso criterio già con i 35enni. Secondo punto, un allenamento adeguato, onde evitare di affrontare gare come la maratona senza la necessaria preparazione”. Il che significa, non solo una preparazione fisica ad hoc, ma anche una preparazione scrupolosa sotto l’aspetto alimentare, di recupero fisico e di conoscenza specifica di tutte le questioni tecniche della propria attività sportiva, dalla tecnica di movimento alla conoscenza dei dispositivi elettronici, cardiofrequenzimetro in testa, che servono per monitorare tanto le performance quanto l’affaticamento.

“Naturalmente i controlli medici – conclude Mori – devono essere ripetuti ogni anno e ogni qualvolta il soggetto avverta un disturbo. In definitiva, l’attività fisica di resistenza sicuramente non ci rende immortali, ma probabilmente migliora la qualità di vita e riduce il rischio cardiovascolare”.

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