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La RAI ha mandato in onda qualche mese fa uno sceneggiato a puntate dal titolo “Cuori” che, pur con molte inevitabili ingenuità e qualche evitabile marchiano errore, faceva rivivere l’epoca dei pionieri della cardiochirurgia in Italia, negli anni Sessanta del secolo scorso. Lo so, oggi li chiamano fiction, ma mi pare che il vecchio termine italiano si adatti meglio al concetto che voglio esprimere: quando si parlava di sceneggiato televisivo gli aggettivi sottintendevano il sostantivo romanzo  e in effetti, come in ogni romanzo (pensiamo ai “Promessi sposi”, o ai “Tre moschettieri”),  la narrazione delle avventure più che altro sentimentali e più o meno immaginarie dei protagonisti si inserisce in un contesto di eventi realmente accaduti, intrecciandosi con le vicende di personaggi reali.
“Cuori” era ambientato presso l’ospedale San Giovanni Battista – più noto come “Le Molinette” – di Torino, uno dei due poli dove nacque e si sviluppò la cardiochirurgia in Italia: l’altro era il Policlinico Umberto I di Roma, con Pietro Valdoni, mentre alle Molinette operavano Achille Mario Dogliotti e Angelo Actis Dato.
La cardiochirurgia è una branca chirurgica relativamente giovane, ed in un certo senso nata in Italia: per poter operare sul cuore è necessario in molti casi fermarlo, e dunque gli interventi a cuore aperto sono diventati possibili solo quando, a metà del Novecento, fu messa a punto negli Stati Uniti la macchina cuore-polmone. Ma anche gli interventi “a cuore chiuso” erano considerati estremamente rischiosi, e il cuore non aveva potuto beneficiare dell’enorme impulso che la chirurgia generale aveva subito circa cent’anni prima, nella seconda metà dell’Ottocento, grazie alla messa a punto delle tecniche di anestesia generale: alla fine di quel secolo c’era ancora nei confronti del cuore una specie di timore reverenziale, tanto che il grande chirurgo austriaco Billroth, ideatore delle operazioni di resezione dello stomaco, tuonava che “chiunque osasse operare sul cuore avrebbe fallito, ed avrebbe perso la stima dei suoi colleghi”.
Ebbene, fu un italiano ad infrangere quel tabù: il dottor Guido Farina, non un grande luminare ma un oscuro giovane chirurgo dell’ospedale della Consolazione a Roma, che in una notte del 1896 suturò una ferita di coltello che aveva squarciato il pericardio di un frequentatore delle osterie, nel corso di un duello rusticano. Ma questa è un’altra storia.
Alle Molinette la cardiochirurgia era di casa già dai primi anni Cinquanta del Novecento: nel 1952 fu inaugurato il Centro “Blalock”, intitolato ad un grande cardiochirurgo americano, ma già dall’anno precedente Dogliotti e Actis Dato avevano iniziato ad effettuare interventi di riparazione delle valvole cardiache e di correzione di alcune cardiopatie congenite, prima senza e poi con l’ausilio della macchina cuore-polmone. E mentre simili interventi, fino a pochi anni prima inimmaginabili, si avviavano a diventare di routine, forse perché l’ingegno umano ha bisogno di porsi sempre nuovi confini da superare, ci si cominciava ad interrogare su quali opportunità poter offrire ai pazienti il cui cuore fosse talmente danneggiato dalle patologie da non poter essere riparato, e dunque necessitasse addirittura di essere sostituito: iniziava la sperimentazione parallela sul trapianto cardiaco e sul cuore artificiale.
Non è certo un caso se il contributo italiano al cuore artificiale si è concretizzato inizialmente proprio a Torino: Torino è la città della FIAT, ed il progetto nacque – pare, a seguito di un incontro fortuito durante una cena di gala – dalla collaborazione tra il cardiochirurgo Actis Dato e l’ingegner Bosio, titolare di una industria che produceva pompe per motori diesel.
Nel 1967 veniva registrato il primo brevetto italiano per “pompa a comando fluidico per circolazione sanguigna artificiale”.
L’incontro tra il cardiochirurgo, che aveva ben chiari i concetti di fisiopatologia circolatoria, e un ingegnere, che per contro aveva esperienza e competenze in fluidica e idraulica meccanica, consentì di iniziare un percorso di progettazione e sperimentazione affascinante e proficuo, anche con l’impiego di soluzioni tecniche innovative e originali come le   valvole   fluidiche   per   ridurre   le   turbolenze   e   l’emolisi   durante   il funzionamento dei ventricoli pneumatici. A Castiglione Torinese, vicino alla fabbrica dell’ingegner Bosio, si allestì una sala operatoria con annesso stabulario, dove i vari prototipi vennero testati su animali; per motivi di autorizzazione da parte del Ministero della Sanità il cuore di Actis Dato e Bosio non poté mai essere impiantato sull’uomo in Italia, ma nel 1976 a Zurigo fu impiegato con successo per sostenere temporaneamente la funzione cardiaca  in sei pazienti.
La sperimentazione intanto proseguiva e le applicazioni cliniche si moltiplicavano in tutto il mondo: ricordiamo solo, tra i “marchi di fabbrica” più noti, il progetto Jarvick negli Stati Uniti, e quello “Icaros” ancora in Italia.
In effetti, le principali limitazioni all’impiego del cuore artificiale – non solo del modello italiano, ma di tutti quelli via via messi a punto nel mondo – sono costituite dall’usura delle componenti meccaniche, dalla necessità di avere a disposizione fonti di energia principali e di emergenza (batterie) sempre efficienti, e dal fatto che tutto questo comporta che i sistemi siano molto ingombranti. Anche gli apparecchi più recenti (tutti quelli della serie Jarvick, ad esempio) non sono mai interamente impiantabili all’interno dell’organismo, e sussiste sempre una parte più o meno voluminosa del sistema collocata all’esterno. Sono dunque apparecchiature che non si prestano a sostituire definitivamente la funzione cardiaca, come avviene invece nel caso di un cuore trapiantato, ma piuttosto a vicariarla o sostenerla per il tempo necessario a far sì che il cuore del paziente migliori (nel caso, ad esempio, che non si riesca a “svezzare” un paziente dalla circolazione extracorporea, per una temporanea défaillance dell’organo) o a dare il tempo di reperire un organo adatto al trapianto (bridge to transplant: ponte verso il trapianto). Proprio in questa prospettiva si è andata orientando l’applicazione clinica del cuore artificiale: in Italia, in particolare, i primi impianti sono stati effettuati nella notte di Natale del 1987 dall’équipe del professor Viganò a Pavia, e nel gennaio 1988 da quella del professor Parenzan a Bergamo.
L’altra linea su cui si continua a lavorare è quella dei cosiddetti LVAD: non cuori artificiali totali, ma sistemi di pompa che coadiuvano il cuore del paziente. La sigla, pressoché impronunciabile per noi, sta per Left Ventricle Assist Device = sistema di assistenza del ventricolo sinistro. Il cuore malfunzionante non viene asportato, ma il ventricolo sinistro è collegato ad un sistema di pompa che immette direttamente il sangue in aorta, sostenendo così gran parte della circolazione. La pompa viene collocata nell’addome del paziente, e solo la batteria, collegata mediante un cavo che fuoriesce in prossimità dell’ombelico, è esterna, collocata in una specie di cintura simile ad una cartuccera che il paziente porta con sé.
Con un simile dispositivo addosso è possibile compiere tutte le comuni attività di vita quotidiane e condurre un’esistenza pressoché normale, se pure sotto costante controllo medico, per diversi anni. Naturalmente, non solo l’impianto chirurgico del dispositivo ma anche l’indicazione al suo impiego ed il monitoraggio del funzionamento richiedono altissima specializzazione da parte di équipe medico-chirurgiche espressamente dedicate. Sono dunque riservati a Centri di Eccellenza, tra cui, naturalmente Le Molinette di Torino.
Ma anche questa è un’altra storia, e non escludo di raccontarvela in uno dei nostri prossimi appuntamenti.

Cristina Cavalletti, Unità Coronarica Policlinico Umberto I,
Università “La Sapienza” di Roma.
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