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di Alberto Ferrari

Una pressione sistolica sotto ai 120 mmHg è in grado di ridurre sensibilmente l’infarto, l’ictus e altre gravi malattie cardiovascolari. È quanto emerge da un importante studio americano che promette di livellare verso il basso gli attuali parametri di ipertensione. Al medico il compito di usare cautela in alcuni casi, per evitare gli effetti collaterali dovuti a cali di pressione improvvisi

Sprint. Con un nome così anche uno studio scientifico era destinato ad arrivare al traguardo prima del tempo. Avviato nel 2009, lo studio Sprint, acronimo di Systolic Blood Pressure Intervention Trial, è stato interrotto nel 2013, con largo anticipo sulla tabella di marcia, in quanto i ricercatori, sponsorizzati dal National Institute of Health, hanno ritenuto di avere raggiunto dei ‹‹risultati così eclatanti›› che andavano comunicati senza aspettare la scadenza programmata. A fine 2015 sono state pubblicate le prime conclusioni, secondo le quali con la pressione sistolica al di sotto dei 120 mmHg si riducono sensibilmente le principali malattie a carico dell’apparato cardiaco e circolatorio e la mortalità nei soggetti ipertesi a elevato indice di rischio cardiovascolare. ‹‹I risultati preliminari dello studio Sprint – a parere di Kim Allan Williams, presidente dell’American College of Cardiology – dimostrano che la comunità cardiovascolare deve continuare a combattere in maniera aggressiva una condizione che porta a ictus, malattie renali e problemi cardiaci. I risultati in dettaglio dello Sprint daranno un grande contributo alle future linee guida di trattamento della pressione arteriosa. Nel frattempo, questi dati offrono ai medici informazioni utili nella pratica clinica quotidiana per ottenere condizioni migliori per i pazienti ipertesi››. Il che, tradotto in parole povere, vorrebbe dire abbassare l’asticella della pressione sistolica delle attuali linee guida da 140 a 120 mmHg, quanto meno per i pazienti ipertesi che corrono seri fattori di rischio cardiovascolare rispetto agli ipertesi senza fattori di rischio aggiuntivi. Il condizionale per il momento è d’obbligo, a dar retta agli effetti collaterali, sui quali il discorso di merito è ancora aperto.

Per capire bene di che cosa stiamo parlando conviene andare per gradi. Cominciamo col dire che lo studio Sprint – come si legge nell’articolo apparso sul «New England Journal», la prestigiosa rivista scientifica che si è prestata a fare da cassa di risonanza mediatica – ha cercato di indagare quale fosse la pressione arteriosa ideale per i pazienti affetti da alcuni dei disturbi cardiovascolari più diffusi e pericolosi. Nel farlo, si è partiti da una premessa molto concreta, e cioè che l’ipertensione è assai prevalente nella popolazione adulta degli Stati Uniti, specie fra le persone con più di 60 anni d’età, e affligge all’incirca un miliardo di adulti in tutto il mondo. Tuttavia, il pericolo maggiore deriverebbe da episodi anche isolati di ipertensione sistolica fra le persone con più di 50 anni. Infatti, i picchi di pressione sistolica (comunemente chiamata “la massima”) sarebbero da ritenere i più pericolosi, giacché indipendentemente dai valori di pressione diastolica (“la minima”), pare che siano direttamente connessi con le malattie cardiovascolari, l’ictus, l’arresto cardiaco e con alcune delle più gravi disfunzioni renali (nefropatie). Non si tratta di una conclusione affrettata. A indentificare il ruolo che gioca la pressione sistolica elevata nella definizione di queste gravi patologie, i ricercatori dello Sprint sono stati confortati dalle conclusioni di ben 67 studi scientifici di cui si è avuto notizia nel frattempo (2010), a loro dire tutti concordi nell’indicare il surriferito fattore di rischio come la causa primaria di morte, di disabilità permanente e di perdita di anni vitali.

Nello studio Sprint sono stati arruolati oltre 9 mila pazienti d’età maggiore o uguale a 50 anni, reclutati in oltre 100 fra ospedali e ambulatori di Stati Uniti e Porto Rico, con valori di pressione arteriosa sistolica maggiore-uguale a 130 mmHg (≥ 80 mmHg la diastolica) e ad alto rischio. Più nello specifico, i pazienti ad alto rischio erano tali in quanto affetti da malattia cardiovascolare sintomatica o asintomatica, oppure da nefropatia grave, o presentavano un rischio cardiovascolare (calcolato con le tabelle di Framinghan) superiore o uguale a 15%. Sono stati esclusi i pazienti diabetici e coloro i quali risultavano colpiti da ictus cerebrovascolare. ‹‹Lo studio Sprint aveva come obiettivo primario quello di verificare se la riduzione della pressione sistolica al di sotto dei 120 mmHg – ci spiega Sergio D’Addato, ricercatore e responsabile del Centro per la Cura delle dislipidemie dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna – potesse determinare una riduzione significativa di infarto miocardico, di sindrome coronarico acuta senza infarto del miocardio, scompenso cardiaco acuto, morti per malattie cardiovascolari. Inoltre, era stato considerato l’effetto sulla mortalità per tutte le cause. Lo studio è stato interrotto prima del tempo perché si è ritenuto che avesse raggiunto gli obiettivi prefissati››.

I pazienti sono stati suddivisi in due gruppi, caratterizzati da due diversi target di pressione sistolica: inferiore a 120 mmHg il primo e inferiore a 140 mmHg il secondo. I medici potevano ricorrere ai farmaci ipertensivi che ritenevano più idonei a mantenere distinti i due gruppi. Per ottenere l’abbassamento pressorio più significativo si è ricorso massicciamente a farmaci antipertensivi in associazione. Dopo un anno si è registrato un abbassamento della pressione sistolica media a 121,4 mmHg nel gruppo con il target pressorio più basso, mentre nell’altro gruppo a trattamento standard la pressione media si è assestata intorno ai 136,2 mmHg.

Con questi valori, dopo quattro anni, quando si è optato per interrompere lo studio, si é visto che l’obiettivo primario di una minor riduzione dello scompenso cardiaco e dei decessi per cause cardiovascolari era stato abbondantemente raggiunto nel gruppo a trattamento intensivo. Per lo stesso gruppo, anche l’obiettivo secondario dell’abbassamento della mortalità per tutte le cause aveva dato risultati incoraggianti.

E gli effetti collaterali? ‹‹Lo studio non ha raggiunto il target di ridurre la pressione al di sotto di 120 mmHg nel gruppi trattamento intensivo – è il parere del dottor D’Addato – infatti la media era 121,4 (sembra banale ma su grandi numeri anche questa differenza è importante). Messa così, il guadagno in termini di outcome principali è costato una perdita negli effetti collaterali del trattamento intensivo che sono stati decisamente maggiori, in particolare gli effetti sul rene. Non sappiamo se questi eventi avversi potessero essere ancora più frequenti se si fosse raggiunto veramente il target pressorio della sistolica minore di 120 mmHg››. Oltre ai danni renali, c’è chi mette in guardia dalla possibile ricaduta sulla funzione cognitiva e demenza dovuti all’abbassamento della pressione sistolica. Ma su quest’ultimo punto i ricercatori dello Sprint vanno più cauti e invitano ad aspettare la prossima tornata di dati prima di trarre delle conclusioni definitive. Suggeriscono anche cautela con i pazienti, per evitare i sintomi più frequenti, ovvero il capogiro, le lipotimie e le sincopi. Ma a loro giudizio i vantaggi derivanti da un sensibile abbassamento pressorio, in termini di riduzione di infarti, ictus e morte per ogni causa sono così eclatanti, che non vi è dubbio che questa è la scelta giusta. Se la strada da percorrere è quella indicata dallo studio Sprint, il medico sembra avere un ruolo di primo piano nella valutazione del paziente da sottoporre a trattamento antipertensivo più marcato.

Infine, ci sarebbe da fare chiarezza sui valori e su come ottenerli. Durante le sedute dello studio Sprint la pressione arteriosa è stata rilevata da un misuratore automatico che la registrava tre volte a distanza di 5 minuti l’una dall’altra e poi faceva la media dei valori, senza che il medico o l’infermiere intervenissero personalmente. Una prassi ben diversa dal metodo tradizionale in uso dal medico, come ricordano alcune voci critiche, secondo le quali fra macchina e medico vi può essere una differenza sensibile: 10 mmHg in meno della macchina rispetto alla misurazione del medico. Questione secondaria, a giudizio dei fautori dello studio Sprint, giacché le attuali linee guida tengono conto della diversa misurazione fra strumenti elettronici eletti a domicilio e misurazioni ambulatoriali fatte dal medico. Infatti, a oggi le linee guida indicano che l’ipertensione misurata a domicilio è tale se è pari o superiore a 135 mmHg la pressione sistolica e pari o superiore a 85 mmHg la pressione diastolica. Dal medico l’ipertensione si percepisce con valori leggermente più alti: 140 mmHg la massima e 90 mmHg la minima.

In definitiva, se prendiamo per buone le conclusioni dello studio Sprint, per le persone ad alto rischio è bene ridurre la pressione sistolica intorno ai 120 mmHg con tutte le cautele del caso. Se invece optiamo per un approccio più cautelativo, in attesa di nuovi sviluppi, possiamo sì ‹‹prendere atto che lo studio in questione ha raggiunto i target prefissi – come riconosce il dottor Sergio D’Addato – cioè ha dimostrato che ridurre la pressione sistolica attorno ai 120 mmHg è utile nei soggetti ad alto rischio non diabetici, ma al tempo stesso dobbiamo ragionare sui possibili effetti di tali livelli più bassi››.

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