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di Alberto Ferrari

“Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte mi cercarono lʼanima a forza di botte”. Così cantava De André di un marginale sul quale si accanirono le guardie del carcere. Cose d’altri tempi, ora che vige lo Stato di Diritto? Non è proprio così, a leggere “Quando hanno aperto la cella” in cui si menzionano svariati casi di soprusi finiti tragicamente, con cedimenti cardiaci come ultimo effetto di attenzioni violente

“Picchiato fino a fargli fermare il cuore” è una frase ad affetto poetico ma anche un modo un po’ subdolo per nascondere la verità. C’è stato chi l’ha fatto notare sul web, quando un telegiornale nazionale ha usato queste parole per dare la notizia del processo contro gli esecutori dell’abuso che ha causato la morte di un giovane di appena 18 anni. Un eccesso di riservatezza perché sotto processo erano finiti quattro tutori dell’ordine, tre uomini e una donna, accusati di aver ammazzato di botte il giovane, Federico Aldovrandi? Se è così, come pare, più che una perifrasi attinta dal repertorio poetico, quelle parole sembrano riecheggiare i referti con i quali i funzionari dello Stato, incaricati di fare rapporto, se la sbrigano frettolosamente per nascondere l’evidenza di violenze imbarazzanti. A mettere insieme un po’ di queste vicende raccapriccianti, sulle quali si è tentato in varie fasi di farle passare sotto silenzio, ci hanno pensato Luigi Manconi e Valentina Calderone con la stesura del libro Quando hanno aperto la cella. Un libro denuncia che vogliamo presentare perché, nel referto medico di questi decessi “anomali”, c’è quasi sempre c’è un riferimento diretto alla morte che sopraggiunge per complicazioni cardiache. Di regola l’arresto cardiaco o qualche altro accidente di natura cardiovascolare sono tutt’altro che anomali al momento di un decesso. Piuttosto, nelle morti in questione, è quello che è accaduto prima a essere anomalo. Prima che sopraggiungesse l’infarto o lo scompenso cardiaco. Cos’è accaduto a ragazzo giovane e forte come Federico Aldovrandi prima che gli si “fermasse il cuore”? Federico è stato vittima di un pestaggio brutale ad opera della polizia, avvenuto in un parco una domenica all’alba. Di diverso avviso la versione ufficiale, che a giustificazione delle ecchimosi sul volto e su tutto il corpo parlerà di gesti autolesionisti e intemperanti messi in atto dal ragazzo per effetto dell’alcol e per sfuggire al fermo. Al punto che anche l’azione dei due sfollagente che gli vengono rotti addosso viene rubricata come l’effetto del normale adoperarsi delle forze dell’ordine per contenere la baldanza di un ragazzo di costituzione robusta.

La stessa sorte tocca a Giuseppe Uva, che muore ufficialmente per “arresto cardiaco”. Uva è un uomo di quasi quarant’anni grande e grosso a cui piace fare bisboccia. Una notte viene fermato a Varese mentre con un amico, ubriaco come lui, sta spostando delle transenne spartitraffico rinvenute per caso in un cantiere. Vengono fermati e portati in caserma dalle pattuglie di turno. Ma mentre all’amico non succede niente di grave, Uva viene malmenato brutalmente. Sarà l’amico stesso a testimoniarlo. Nella deposizione dirà di aver udito Uva gridare disperato mentre veniva interrogato. E i segni sul cadavere, fotografati dalla sorella all’obitorio, saranno un ulteriore elemento probatorio che obbligherà il magistrato ad aprire un’istruttoria per fare chiarezza su quel fermo di polizia in cui la tutela del cittadino, garantita dalla Costituzione, è venuta palesemente meno.

Morti violente che tuttavia non convincono per la dinamica con cui vengono giustificate sono, purtroppo, assai frequenti nelle prigioni italiane, dove, a tacer d’altro, la popolazione carceraria è ben più numerosa di quella che le strutture sono in grado di accogliere, ragion per cui convivenza e sopravvivenza diventano difficili, talora impossibili. Nelle carceri super affollate si muore per mano di compagni di cella violenti, perché c’è gente che si ammala e che viene abbandonata al proprio destino, per trascuratezza o per incuria, per negligenza o mancata vigilanza, oppure a causa di atti di induzione al suicidio, tutt’altro che infrequenti. Ma si muore anche in seguito a pestaggi subiti per mano dei secondini. È il caso di Marcello Lanzi, morto in carcere per infarto, stando al referto del medico della struttura penitenziaria, che omette di spiegare i segni delle percosse che verranno riscontrati successivamente, ad ulteriori indagini richieste dai parenti che impugnano il bollettino medico ufficiale.

Nonostante i molti abusi contro i corpi di detenuti o di cittadini sottoposti a fermo di polizia, gli autori di questo libro sono concordi nel non criminalizzare le forze dell’ordine. Non bisogna fare di tutta un’erba un fascio. È più che giusto. Piuttosto, gli autori se la prendono con in meccanismi omertosi che scattano a vari livelli della macchina burocratica, quando c’è da nascondere le malefatte di qualche funzionario dello Stato, siano questi poliziotti, secondini, medici e paramedici negligenti. In questo sembra che la macchina burocratica, vuoi per orgoglio corporativo vuoi per spirito di soppravvivenza, riprenda a funzionare alla perfezione. Senonché, è la tenacia di genitori e parenti che cambia le carte in tavola. Costoro, grazie all’appoggio di associazioni umanitarie, fanno aprire o riaprire casi giudiziari alla ricerca di una verità che restituisca al proprio congiunto l’onore fino a lì misconosciuto dall’ufficialità dei fatti. Solo quando la verità è riaffermata, lo Stato torna ad essere, a pieno titolo, uno Stato di Diritto.

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