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Correre, nuotare o andare in biciletta tutti i giorni ed emulando i campioni nell’impegno fa bene o fa male al cuore? Diciamo che porsi il problema è un bene, data la popolarità di questi sport nella società moderna. È assodato che l’esercizio fisico regolare, specie se di resistenza, cosa che succede nelle attività sportive appena citate, migliora il controllo della pressione sanguigna, il profilo lipidico, riduce l’incidenza di diabete e infarto del miocardio e aumenta l’aspettativa di vita. Più nel dettaglio, chi fa sport di resistenza deve avere una minore prevalenza di placche non calcificate e miste rispetto a chi si limita a uno stile di vita sano. Solo così si spiegherebbe il dato incontrovertibile che gli atleti degli sport di resistenza hanno meno eventi cardiovascolari del resto della popolazione. È questa l’ipotesi da cui è partito lo studio Master@Heart, uno studio di coorte osservazionale prospettico e ben bilanciato condotto in Belgio da parte di ricercatori belgi.

Complessivamente, sono stati inclusi 191 soggetti con un passato di atleti master in sport di resistenza, 191 atleti ad esordio tardivo (sport di resistenza iniziati dopo i 30 anni di età) e 176 non atleti sani, tutti con un basso profilo di rischio cardiovascolare: per dire che tanto gli ipertesi che i diabetici sono stati preventivamente esclusi da questo gruppo di controllo. L’età media di tutti è di 55 (50-60) anni. Altro criterio di inclusione per i partecipanti è essere di sesso maschile d’età compresa tra i 45 ei 70 anni. L’endpoint primario dell’indagine, riscontrare la prevalenza delle placche coronariche calcificate, non-calcificate e miste nei tre gruppi.

Ebbene, i risultati dello studio non supportano l’ipotesi che gli atleti di resistenza abbiano una composizione della placca coronarica più benigna per spiegare il loro minor rischio di eventi cardiovascolari rispetto ai non atleti. In altre parole, la pratica di sport di resistenza per tutta la vita non è associata a una composizione più favorevole della placca coronarica rispetto a chi si limita a condurre uno stile di vita sano, che fa movimento ma non certo della stessa entità dei super atleti, master e non.

Piuttosto, ipotizzano i ricercatori, dato che gli atleti di resistenza hanno arterie coronarie più grandi e un maggiore potenziale vasodilatatore, verosimilmente, il rapporto placca/vaso in loro potrebbe essere inferiore ed essere causa di stenosi meno significative. Anche i livelli di colesterolo e di glicemia degli atleti rientrano di regola nei valori normali; questo per dire che neppure tali riscontri fanno il gioco delle stenosi coronariche.

Tutti i partecipanti di Master@Heart sono di etnia bianca. Il che fa supporre che i risultati potrebbero non essere validi per altre etnie. Un altro limite di questo studio è che tutti gli atleti hanno negato, tramite questionario, l’uso illecito di sostanze dopanti che potrebbero indurre o accelerare l’aterosclerosi coronarica. Tuttavia, non sono stati eseguiti test di laboratorio per confermare questa relazione. Si tratta di un limite non trascurabile, conoscendo quanto siano diffuse le sostanze dopanti fra gli atleti, specie fra gli amatoriali che gareggiano in competizioni dove i controlli non hanno un riscontro così serrato come avviene nelle competizioni dei professionisti. Inoltre, per comodità statistica, sono stati inclusi solo uomini, nei quali il rischio di malattia coronarica non è lo stesso che nelle donne. A una certa età, negli uomini è inferiore.

Pertanto, le conclusioni di questo studio ricordano che la partecipazione a sport di resistenza lungo tutt’arco di una vita, pur accompagnata, come ovvio, da uno stile di vita sano, non produce una placca coronarica dalla composizione più favorevole. Stante i risultati dello studio belga, apparso sulla rivista «European Heart Journal», gli atleti di mezza età hanno più placche coronariche, comprese più placche non calcificate, miste e placche calcificate nei segmenti prossimali con stenosi luminale significativa, rispetto agli individui non sportivi ma con un profilo di rischio cardiovascolare altrettanto basso. Pertanto, la relazione dose-risposta tra l’allenamento di resistenza e l’aterosclerosi coronarica può essere considerato inversamente proporzionale. Per chi volesse leggere tra le righe, si tratta di un invito a riconsiderare la propria attività di resistenza e magari provare a ridurla, quanto meno d’intensità, se non facendo altro.

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