di Elisabetta Bramerio
Che la popolazione invecchi è un dato di fatto. Da più parti si auspica un ripensamento delle cure e delle attenzioni per l’enorme fetta della popolazione con più di 64 anni. Se l’innalzamento dell’età pensionabile sembra inevitabile, altrettanto urgente rivedere l’approccio verso la terza età, a partire da una ridiscussione dei servizi alla persona e della sostenibilità del sistema sanitario
La parola “vecchiaia” non piace a tutti. Secondo un’inchiesta che approfondisce il significato percepito di parole come “giovinezza” e “vecchiaia” in Italia, la metà della popolazione con più di 64 anni preferisce definirsi “adulto” anziché “anziano”, mentre 4 persone su 10, fra coloro che hanno fra i 35 e i 44 anni, si ritengono ancora “giovani”, lasciando adito al sospetto che in molti quarantenni l’idea di crescere e di essere autonomi spaventa, probabilmente a causa della precarietà del lavoro e di tutte quelle altre insicurezze che fanno terra bruciata intorno ai punti saldi dell’esistenza. Ma l’invecchiamento della popolazione è un dato di fatto.
Secondo un recente studio dell’ISTAT, negli anni Cinquanta l’Italia era tra i Paesi europei più giovani mentre oggi è tra i più vecchi. Nel 1957, la metà della popolazione italiana aveva meno di 31 anni, sessantadue anni dopo ne ha più di 45, una differenza di 14 anni. Lo stesso slittamento in avanti dell’età media si è verificato negli altri Paesi europei. Dagli anni del boom economico, delle prime lavatrici e frigoriferi, divenuti oggetti di massa, all’oggi dell’era digitale, lo spostamento è stato di 11 anni in media, da 33 a 44, nei sei Paesi fondatori della UE (Italia, Francia, Germania, Belgio, Olanda e Lussemburgo), da 32 a 43 nel complesso dei 28 Paesi.
Alla base di questo fenomeno vi è, senza dubbio, il calo della natalità. Mentre in Africa, di qui al 2050, la popolazione raddoppierà, nel resto dei Paesi europei e sviluppati la popolazione autoctona è in forte calo. Unica eccezione, Israele. Nello Stato fondato nel 1948 da Ben Gurion, la presenza araba interna e nei Paesi confinanti, con i quali i rapporti sono tuttora di forte tensione, è stata avvertita come una minaccia che ha alimentato sia il comune sentire, sia le politiche in favore della natalità. Nel resto dell’occidente, invece, fare figli è diventata una cosa piuttosto complessa, che richiede una serie di precondizioni favorevoli. Se vengono, i figli si fanno dopo che si sono terminati gli studi, che si è trovato un lavoro stabile, che si ha a disposizione una casa propria, diversa da quella dei genitori. E che, ovviamente, si è dato vita a una coppia stabile.
Un altro fattore che ha alzato l’età media è che la qualità della vita è migliorata nel suo complesso e che la medicina ha fatto progressi in tutti i campi: nella prevenzione, nella diagnosi e nella cura di tutte le patologie. Stando alle statistiche, ogni dieci anni ne guadagniamo due. In Italia, l’età media è di 87 anni, una delle più alte al mondo. Del resto, le persone con più di 64 anni, vale a dire tutti coloro che rientrano nella cosiddetta terza età, da noi sono 14 milioni. Cifra, manco a dirlo, destinata a crescere nei prossimi anni.
Dunque, con buona pace delle nostre percezioni, la popolazione invecchia. Ecco perché da più parti si auspica un ripensamento delle cure e delle attenzioni per l’enorme fetta della popolazione con più di 64 anni. Se l’innalzamento dell’età pensionabile sembra inevitabile, altrettanto urgente è un ripensamento dell’approccio verso la terza età, a partire da una ridiscussione dei servizi alla persona e della sostenibilità del sistema sanitario.
Dagli anni Cinquanta a oggi è cambiato innanzitutto il concetto di salute. Nei vertici planetari che si sono succeduti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale in poi, si è ritenuto appropriato definire la salute come uno stato psicofisico caratterizzato dall’assenza di ogni malattia. Pare che su questa visione molto ottimistica dell’esistenza abbia agito in maniera subliminale il desiderio di cancellare le cause di morte sperimentate con il recente conflitto bellico. Se non si moriva più sotto i bombardamenti, per mancanza di igiene e denutrizione, allora le persone sane potevano sperare di prosperare e moltiplicarsi. Tuttavia, pensare che la salute coincida con uno stato di completo benessere, oltre a essere un’idea un po’ ingenua, si è dimostrato subito aleatorio. L’invecchiamento della popolazione ha come rovescio della medaglia l’aumento delle malattie croniche e invalidanti. L’approccio clinico verso i malati cronici è spesso finalizzato allo studio degli aspetti epidemiologici, oltre che alla verifica e al controllo dello stadio in cui la malattia si evolve. Escludere categoricamente dal novero delle persone sane tutti gli anziani e tutte le persone portatrici di una qualche disabilità, significa escludere un numero rilevantissimo di persone senza essersi posti il problema di come queste persone abbiano imparato e riescano a convivere con i propri deficit.
Inoltre, l’assenza di ogni qualsivoglia patologia sia fisica sia mentale sembra un assist di quelli che spingano a definire ogni persona come un malato in attesa di diagnosi. Nessuno è in grado di definirsi in base a una condizione di completo benessere. Quando qualcuno ci prova, sembra che lo spettro di almeno un acciacco, di almeno un malessere fino a quel momento trascurato si materializzi all’improvviso, giusto per il gusto di smentirlo sonoramente.
Chi si interroga oggi sulla salute preferisce scantonare dall’idea di benessere aleatorio e concentrarsi sugli sforzi che ogni singolo paziente è in grado di attuare in vista di una condizione di equilibrio basata sull’accettazione delle proprie malattie. È quello che, con parole di derivazione anglosassone, viene chiamato con il termine di “resilienza” o “coping”. In base a questi concetti, il benessere si definisce come capacità che ogni paziente ha di sconfiggere il caos che la malattia vorrebbe gettare nella sua vita se egli si lasciasse fare, si lasciasse invadere senza opporre resistenza; e non per l’assenza della malattia. Da questo punto di vista la salute non è affatto l’opposto della malattia e non si coincide con il completo benessere. La salute è un traguardo che si raggiunge facendo prevenzione e adattandosi ad accettare i cambiamenti imposti dalla progressione della malattia.
In base a queste definizioni, la salute consiste nella capacità che abbiamo, come pazienti, di adattarci a una realtà in movimento. Significa fare propria la capacità di invecchiare, di ammalarsi, di soffrire, di guarire e di morire. Da questo punto di vista la salute parla il linguaggio del futuro possibile rispetto a un passato coincidente con la vita prima della diagnosi.
Tra le cause più importanti di morbosità, invalidità e mortalità vi sono le malattie cardio e cerebrovascolari. È così ovunque nel mondo occidentalizzato, Italia compresa. Si tratta delle malattie ischemiche, dell’infarto acuto del miocardio e dell’angina pectoris sul fronte cardiovascolare, dell’ictus ischemico ed emorragico sul fronte cerebrovascolare.
Stiamo parlando di malattie in gran parte prevedibili, che si definiscono sulla scorta dei fattori modificabili legati alle abitudini di vita (fumo, abuso di alcol, alimentazione poco salutare e sedentarietà) che a loro volta possono causare diabete, obesità, ipercolesterolemia e ipertensione arteriosa, vale a dire patologie e condizioni cliniche che non fanno altro che amplificare, in un circolo vizioso, le malattie cardiache e cerebrovascolari.
Accanto ai fattori prevedibili, contro i quali le esortazioni a seguire comportamenti più virtuosi rischiano di usurarsi per il troppo uso che se ne fa, vi sono i fattori non modificabili come l’età, il sesso e la familiarità, contro i quali la sfida della ricerca clinica è aperta e i progressi sono lenti ma tangibili.
Secondo dati Istat, le malattie ischemiche del cuore sono le più frequenti fra gli uomini, quelle cerebrovascolari lo sono fra le donne. Le malattie cardiovascolari nelle donne si presentano con un ritardo di una decina d’anni rispetto agli uomini. Da questo fatto trae spunto il pregiudizio secondo il quale si tratta di malattie più a carico degli uomini che delle donne. Niente di più fallace. Le ragioni di questo ritardo nelle donne è legato alla protezione ormonale, che perdura finché la donna non entra, verso i 50 anni, in menopausa. In assenza della protezione ormonale, le donne vengono colpite da eventi cardio e cerebrovascolari tanto quanto gli uomini, con esiti spesso più gravi, forse perché trascurati per più tempo, in quanto confusi con sintomi riferibili ad altre patologie tipicamente femminili.
È vero piuttosto che le donne hanno un’aspettativa di vita maggiore, pertanto al pari degli uomini è bene che si conformino fin da giovani alle regole auree di una corretta prevenzione cardio e cerebrovascolare, se vogliono approfittare dei benefici di questo primato di genere.
Tra le norme di prevenzione con le quali ciascuno di noi è bene che si confronti fin da giovane, primeggiano una corretta alimentazione, uno stile di vita nel complesso sano (no stress, no fumo, no alcol in eccesso, fare i controlli medici a scadenza programmata ecc.) e fare attività fisica con regolarità.
Siamo quello che mangiamo, ragion per cui un consumo limitato di sale, vale a dire non più di 5 grammi al giorno, affiancato da una dieta ricca di frutta e verdura, legumi, carni bianche e pesce e povera di grassi, di carni rosse e soprattutto di sostanze zuccherine, oltre che di formaggi e insaccati, è il modo migliore per aiutare la prevenzione a partire dalla dieta. Mangiar sano, oltre a ridurre la pressione arteriosa, aiuta a mantenere i livelli di grassi nel sangue sotto i livelli di guardia.