Ci sono persone che più di altre rischiano di ammalarsi di Coronavirus e sviluppare le più gravi complicanze, fino a morirne. A dirlo è uno studio condotto dagli esperti dell’ospedale San Raffaele di Milano, dove hanno curato poco meno di mille pazienti positivi al virus nei primi mesi della pandemia. In concomitanza ai primi mesi di cura, i ricercatori in forze alla clinica milanese, fiore all’occhiello del Gruppo San Donato, hanno avviato uno studio osservazionale per capirne di più della malattia e dei soggetti che manifestavano le forme più gravi. Le informazioni ottenute incrociando l’analisi dei campioni biologici, la storia clinica e i dati diagnostici, hanno evidenziato che i fattori primari di rischio di mortalità da Covid-19 sono l’età avanzata, la presenza di un tumore maligno, l’ipertensione arteriosa e le malattie coronariche. In altre parole, gli anziani, i pazienti oncologici con diagnosi recente, chi ha già avuto un infarto o, più banalmente, è iperteso sono gli individui più a rischio di sviluppare le forme più aggressive da Covid-19.
I pazienti che si ammalano di Covid-19 possono sviluppare sindrome coronarica acuta, tromboembolia polmonare, miocardite e potenziali effetti aritmici come complicanze del trattamento medico al quale, di regola, sono sottoposti. Lo studio multicentrico europeo coordinato dall’Università parigina “René Descartes”, al quale partecipa anche il Niguarda COVID Resarch-Group di Milano, rappresentato dai cardiologi Cristina Giannattasio e Alessandro Maloberti, indaga i meccanismi alla base del danno cardiovascolare indotto da Covid-19 e fotografa l’aggravarsi delle condizioni degli organi nei vari distretti interessati. La necessità di aver un quadro più chiaro dei danni a lungo termine ha determinato la nascita del Niguarda COVID Research Group, il cui scopo è raccogliere e processare i dati di tutti i pazienti transitati da Niguarda per infezione da Covid-19. Le sequele a lungo termine vengono valutate attraverso un programma di follow-up ambulatoriale multidisciplinare che si protrarrà nel tempo. Tutte le azioni messe in campo servono per chiarire, per esempio, se nei pazienti sopravvissuti alla infezione rimarranno danni permanenti a livello polmonare e/o a livello cardiaco e vascolare. «Due particolari aspetti ci premono a livello cardiologico, ovvero le sequele sulla funzione di regolazione autonomica (del sistema nervoso) del sistema cardio-vascolare e sulla sua risposta alla tempesta citochinica e infiammatoria determinata dall’infezione» chiarisce Alessandro Maloberti ricercatore presso l’università degli studi di Milano Bicocca con sede clinica al Cardio center De Gasperis di Niguarda. A suo dire, inoltre: «Si valuta la frequenza cardiaca in quanto marcatore della regolazione cardiaca da parte del sistema nervoso centrale e le sue variazioni nell’ambito del ricovero e nel successivo periodo di follow-up. Allo stesso modo la tempesta citochinica-infiammatoria potrebbe determinare danni a livello del sistema cardiaco e vascolare, esitando in fibrosi dei vasi e del tessuto del cuore». Cristina Giannattasio, professoressa ordinaria alla Bicocca e direttrice del Cardio Center De Gasperis di Niguarda, aggiunge: «Conoscere le sequele a lungo termine sul cuore e sui vasi, nonché sul controllo della frequenza cardiaca è rilevante in pazienti, che, come noto, sono frequentemente ipertesi, diabetici e sovrappeso, tutte condizioni evidenziate come fattori favorenti e facilitanti l’infezione Covid 19 e che, d’altra parte, si associano a un maggior rischio cardiovascolare. A questo proposito, va rilevato che tutte le pubblicazioni sul tema hanno smentito un possibile ruolo negativo delle principali classi di farmaci utilizzati nel trattamento dell’ipertensione arteriosa che, a differenza di quanto ipotizzato inizialmente, non sembrano essere associate ad alcun effetto sulla possibilità di ammalarsi né tanto meno sulla gravità del Covid 19». I pazienti ipertesi se lo stanno chiedendo da inizio pandemia: come devono comportarsi con la terapia antipertensiva che assumono? «Come dicono le società cardiologiche e ipertensiologiche, nazionali e internazionali, Ace inibitori e Sartani possono essere utilizzati con tranquillità – risponde il dottor Maloberti – nulla di sostanziale è stato infatti dimostrato a loro carico, e molto peggiori sono i potenziali effetti associati alla loro sospensione improvvisa o a variazioni di principio attivo non controllate». «Certamente – sottolinea Giannattasio – in questa fase post emergenziale, dove si stanno evidenziando tutte le conseguenze della riduzione d’attenzione, del venire meno dei controlli e delle valutazioni imposti ai pazienti cardiopatici durante il periodo di accesso contingentato a ospedali e cure mediche, dobbiamo potenziare le attenzioni, al fine di prevenire l’evidenza di complicanze cerebro e cardiovascolari associabili alla riduzione dell’uso di farmaci».