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I primi ad accorgersi che fra i casi gravi di covid non vi erano solo pazienti affetti da polmonite sono stati i medici di Cina e Italia. È successo quando nelle rispettive terapie intensive hanno iniziato ad affluire pazienti in condizioni critiche, fra il settimo e decimo giorno della comparsa dei primi sintomi, non riconducibili alla polmonite bilaterale che stavano riscontrando nella maggioranza degli altri casi. La Cina è il paese da cui tutto è partito. Qui il virus ha fatto il salto di specie passando dal pipistrello all’uomo, colpendo duramente gli abitanti della città e della regione di Wuhan. L’Italia è il primo paese occidentale in cui i contagi sono cresciuti in poco tempo in maniera esponenziale a partire da due cluster (Codogno e Vo’ Euganeo) venuti alla luce verso la fine di febbraio 2020.

Fra questi pazienti anomali, che in base ai dati finora emersi rappresentano il 10% circa dei casi a rischio, vi sono soggetti con chiari sintomi di sofferenza cardiaca. Il segno inequivocabile, valori elevati di troponina, coincidenti con uno stadio infiammatorio del muscolo cardiaco e tipici di un infarto del miocardio in corso. Questo perché il virus, indipendentemente dalla polmonite, scatena un’infiammazione a livello vascolare che accelera il rischio generalizzato di instabilità e rottura della placca coronarica.

È questa l’acquisizione che l’esperienza clinica sta insegnando. Come se non bastasse, il covid favorisce la formazioni di trombi che portano all’arresto di flusso sanguigno a livello delle coronarie con successivo infarto nelle porzioni interessate del muscolo cardiaco. Le due forme di infarto vengono curate secondo i protocolli standard, a patto che le condizioni generali del paziente non siano d’ostacolo. Si ricorre all’intervento di ablazione percutanea (l’applicazione di uno o più stent a livello coronarico) in caso di IMA (infarto del miocardio), oppure trattando farmacologicamente il paziente – in sede di emodinamica – per l’infarto del secondo tipo.

Tra i soggetti più critici, quelli più esposti al rischio cardiovascolare. Fatto sta che in poco tempo queste acquisizioni, diventando patrimonio comune in seno alla comunità scientifica e trovando conferma nelle corsie degli ospedali di tutto il mondo, hanno suggerito a un gruppo di ricercatori statunitensi, in un recente studio, apparso sul “Journal of the American College of Cardiology”, che il problema fosse riassumibile nei seguenti quattro punti. Il primo, prendendo in considerazione, fra i covid-positivi, i pazienti con malattie cardiovascolari preesistenti, s’è visto che questi ultimi corrono un rischio maggiore di aggravamento delle condizioni cliniche fino al decesso. Secondo, le complicazioni maggiori sono connesse con malattie cardiovascolari preesistenti che includono i danni al miocardio, le miocarditi, le aritmie e i tromboembolismi venosi; tra i fattori di rischio, il diabete, l’ipertensione e il vizio del fumo. Terzo, le terapie messe a punto per la cura del covid hanno dimostrato di avere effetti collaterali a livello cardiaco e vascolare. Quarto e ultimo, il triage per stabilire la positività al covid in molti casi ha ritardato le cure cardiovascolari, facendo peggiorare – in taluni casi precipitare – il quadro clinico del paziente.

A ben vedere, non potrebbe essere altrimenti, se partiamo dal dato in base al quale il covid penetra nell’organismo sfruttando le capacità di trasporto di una determinata proteina, l’ACE2, la stessa che i vasi arteriosi e venosi utilizzano per mettere a segno le funzioni fisiologiche essenziali tra le quali la circolazione sanguigna. Non è causale, dunque, se fra i pazienti che hanno avuto bisogno di essere intubati nelle orami tristemente famose “terapie intensive”, ci sono i pazienti cardiovascolari che presentavano (e presentano) una o più delle surriferite comorbilità cardiovascolari.

Sul versante della terapia anticovid, s’è visto che il ricorso agli antivirali, sperimentati negli anni per la cura di Ebola, dell’HIV e di altre malattie che evolvono attraverso il contagio interpersonale, possono avere delle tossicità per il miocardio e per altri componenti cardiaci. Unica eccezione, a quanto pare, l’ibuprofene, l’antinfiammatorio non-steroideo che, pur avendo pesanti effetti collaterali per vari distretti, sembra risparmi quello cardiovascolare.

A questo punto della pandemia, si stanno sperimentando nuove terapie che fra i vari benefici si prefiggono di salvaguardare maggiormente la salute di cuore e arterie. Nel dettaglio, per avere una visione più chiara del legame che intercorre fra la proteina ACE2 che funge da carrier per il virus e l’effetto sull’angiostatina (la proteina in grado di inibire la vascolarizzazione) di alcuni farmaci per il controllo dell’ipertensione, come gli Ace-inibitori e i sartani, la clinica suggerisce che finora non sarebbero emersi casi critici tali sconsigliarne l’uso. Nulla di negativo è finora emerso a carico di questi farmaci, ragion per cui chi dovesse interromperne l’utilizzo ex abrupto si vedrebbe esposto ai soli rischi dettati da una sospensione improvvisa, oppure a quelli connessi con dei cambiamenti di principio attivo ancora da verificare.

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