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di Anna Pellizzone

Infarto e altre gravi malattie cardiache sono sottostimate fra le donne, lo dice una ricerca che ha messo a confronto la conoscenza e la consapevolezza dei rischi cardiovascolari in uomini e donne. Ragioni sociali e di discriminazioni di genere alla base del fenomeno. Fatto sta che le donne soggette a infarto hanno maggiore probabilità degli uomini di essere di etnia non bianca, single, lavoratrici precarie o disoccupate e con un titolo di istruzione limitato alle scuole primarie

Le malattie cardiache sono la prima causa di morte e una delle ragioni delle forme di disabilità per le donne di tutto il mondo. Anche se tipiche dell’età più avanzata, negli USA, ogni anno, più di 15 mila donne sotto i 55 anni muoiono a causa di una malattia cardiaca. Inoltre, le giovani donne con infarto miocardico acuto (IMA) hanno un eccesso di mortalità rispetto agli uomini della stessa età. Ma quanto sono consapevoli le donne dei rischi che corrono? E perché è importante conoscere i propri fattori di rischio?

Il presupposto da cui partire per rispondere a queste domande è che la predisposizione alle malattie cardiovascolari può essere determinata da fattori di rischio di diverso tipo: quelli modificabili attraverso un cambiamento dello stile di vita, come l’abitudine al fumo o il sovrappeso, e quelli congeniti o genetici. I primi, oltre a essere quelli su cui si può intervenire, sono anche quelli più diffusi.  Conoscerli è quindi il primo fondamentale passo per vivere in salute, il meglio e il più a lungo possibile. Purtroppo, però, nonostante la medicina abbia fatto, soprattutto negli ultimi 15-20 anni, moltissimi passi avanti nell’individuazione dei fattori di rischio che predispongono alla malattia coronarica, l’accesso alle informazioni messe a disposizione dalla scienza, la consapevolezza del rischio e l’educazione alla prevenzione non sono uguali per tutte le categorie sociali.

In tal senso, per quanto riguarda l’infarto miocardico acuto (IMA), una popolazione complessivamente svantaggiata è quella femminile. A confermarlo è lo studio VIRGO (Variation in Recovery: Role of Gender and Outcomes of Young AMI Patients), condotto negli Stati Uniti e in Spagna tra il 2008 e il 2012 su oltre 3500 pazienti con un’età compresa tra i 18 e i 55 anni, proprio per indagare quanti soggetti, all’interno di una popolazione di pazienti che avevano avuto un infarto miocardico acuto, erano consapevoli di essere a rischio IMA.

Il dato fondamentale che emerge da questo studio è che, anche laddove uomini e donne presentino entrambi fattori di rischio elevati, le donne hanno minore probabilità di essere consapevoli del proprio rischio. Il dott. Marco Luciano Rossi, Aiuto presso l’U.O. Di Emodinamica e Cardiologia Invasiva dell’Humanitas Research Hospital di Rozzano (Milano), ritrova la sua esperienza di medico in questo risultato: «Lo studio è molto interessante – commenta – perché se da un lato è vero che i più soggetti a infarto miocardico acuto sono gli uomini anziani, è altrettanto vero che questa patologia è frequentemente rappresentata anche nelle donne e nei giovani, soprattutto in presenza di fattori di rischio multipli. Ma siccome nell’immaginario collettivo e in generale anche tra gli operatori sanitari si tende a identificare come categoria a rischio quella degli uomini anziani, si è portati erroneamente a sottostimare il rischio di popolazioni come quella dei giovani e delle donne». Dello stesso avviso è anche Elisa Paganini, medico con formazione specialistica in Medicina Generale, C.A. di Busto Arsizio, e giovane iscritta SIMG (Società Italiana di Medicina Generale – Membro del Direttivo Provinciale di Varese): ‹‹Quando si parla di salute della donna, effettivamente si pensa di più ad altre patologie, come per esempio ai tumori. Quello che si diceva in passato è che il rischio delle donne diventava simile a quello degli uomini dopo la menopausa, perché gli estrogeni hanno una funzione protettiva rispetto ai problemi cardiovascolari. Tuttavia, questo è vero solo in parte, perché bisogna tenere conto che negli ultimi anni lo stile di vita delle donne si è modificato, soprattutto per quanto riguarda uno dei principali fattori di rischio modificabili, che è il fumo. Oggi le donne fumano come gli uomini, spesso in età precoce, e questo si manifesta anche nell’aumento del cancro del polmone». E aggiunge: ‹‹Non dobbiamo dimenticare che le donne in età fertile utilizzano molto spesso la pillola e questo può modificare un po’ il profilo lipidico del sangue. Quindi, se per esempio una donna fumatrice ha anche il colesterolo e i trigliceridi alti, questi sono già due fattori di rischio da tenere in considerazione». Come confermato dallo studio VIRGO, quasi tutte le donne (97%) e quasi tutti gli uomini (99%) con infarto miocardico acuto che hanno preso parte alla ricerca presentavano almeno uno dei cinque fatto di rischio indagati e il 65% delle donne e il 63% degli uomini ne presentava almeno tre. Il fattore di rischio più diffuso è risultato essere la dislipidemia (86%), seguita dall’ipertensione (63%), dal fumo (60%), dall’obesità (49%) e dal diabete mellito (35%). Due i fattori di rischio più diffusi tra le donne che tra gli uomini – il diabete mellito e l’obesità – mentre per ipertensione e fumo non sono state registrate differenze significative tra i due sessi.

Ma sono anche altre le informazioni che ci dà questa ricerca: le donne soggette a infarto hanno maggiore probabilità degli uomini di essere non bianche, non sposate, non occupate e con un’educazione limitata alla scuola primaria. A questo si aggiunge che, negli Stati Uniti, è risultato anche più probabile che le pazienti soffrissero di più patologie contemporaneamente e avessero una storia di IMA o di rivascolarizzazione. In Spagna, invece, come sottolinea il dott. Rossi, «la ricerca mostra che le donne giovani che vanno incontro a infarto hanno una maggiore probabilità di avere una famigliarità per le malattie coronariche degli uomini». Come conferma la dottoressa Paganini, si tratta di un messaggio importante, che ci dice che «soprattutto nei giovani che hanno fattori di rischio correlati alla famigliarità o dei minimi difetti anatomici, si deve fare prevenzione primaria, quindi prima che ci sia effettivamente il primo evento››.

La familiarità può quindi avere un ruolo importante nel descrivere il nostro quadro clinico, ma cosa implica tutto questo nella pratica? ‹‹Chiaramente – ci spiega la dottoressa Paganini –  per valutare chi sottoporre a degli esami, ci sono delle carte del rischio. Sono delle tabelle in cui si segnano una serie di variabili come – appunto – la familiarità, l’età, il fumo, la pressione e in base a questo si ricava più o meno quale sarà il rischio di sviluppare in dieci anni un evento cardiovascolare. Per esempio, anche in giovane età, intorno ai 20-25 anni, su chi fuma e ha una familiarità positiva, è bene fare degli accertamenti, come controllare la pressione e la glicemia. Oppure fare un elettrocardiogramma, che ovviamente non ti dice se ti verrà un infarto, ma se c’è una sofferenza cardiaca e se il cuore è quindi sovraccarico. Purtroppo, con la recente legge sull’appropriatezza, alcuni esami non sono più gratuiti per tutti. Per esempio, il profilo lipidico è gratuito come screening solo al di sopra dei 40 anni, a meno che non ci sia una familiarità positiva. Ma anche a una donna al di sotto dei 40 anni, un po’ in sovrappeso, che prende la pillola e fuma io farei comunque fare il test del profilo lipidico. Purtroppo, il nostro sistema sanitario non è più universalistico al 100% e per questo credo che, oltre alla sensibilizzazione, ci sia anche un problema di risorse››.

Ma non è tutto, perché lo studio VIRGO evidenzia anche altre differenze legate al genere tra i pazienti con infarto miocardico acuto. Le donne, per esempio, hanno maggiore probabilità di avere un’insufficienza cardiaca congestizia, un’insufficienza renale cronica e malattie polmonari croniche; mentre gli uomini è più probabile siano già stati sottoposti a un intervento di rivascolarizzazione e che presentino un infarto miocardico con innalzamento del segmento ST (STEMI).

Per quanto riguarda la consapevolezza del rischio, i dati sono allarmanti: prima dell’evento IMA, negli USA, solo il 56% dei pazienti si considerava a rischio per le malattie cardiache, solo il 50% era stato informato del proprio rischio da un medico e solo il 53% aveva parlato con un dottore di queste patologie e dei modi per abbassare il proprio rischio; in Spagna queste percentuali scendono rispettivamente al 36%, 26% e 22%. Per le donne, sia in Spagna, sia negli USA, la percentuale è ancora più bassa che per gli uomini (la probabilità che una donna fosse stata informata del proprio rischio per le malattie cardiache scende dell’11% rispetto agli uomini e, sempre rispetto alla popolazione maschile, la probabilità che fosse stata informata rispetto alle malattie cardiache e alla riduzione di rischio è inferiore del 16%). Non stupisce che, come riportato dall’American Heart Association, solo il 56% delle donne citi le malattie cardiache come la prima causa di morte per la popolazione femminile e che solo il 48% si senta informata rispetto a queste patologie. La situazione è ancora più grave per le ragazze più giovani: tra i 25 e i 34 anni, solo il 6% delle donne ha parlato di rischi cardiaci con il proprio medico, una percentuale che sale al 16% tra i 35 e i 44 anni, al 23% tra i 45 e i 64 e al 33% sopra i 65.

Aldilà dei numeri, la conclusione generale è che l’informazione rispetto al rischio cardiaco può e deve essere migliorata e questo è particolarmente vero per la popolazione femminile e per i più giovani. Si tratta di una vera e propria battaglia culturale, in cui a giocare un ruolo fondamentale non sono solo i medici di medicina generale: ‹‹Oltre a un’informazione più capillare da parte dei medici di famiglia – commenta il dott. Rossi – si potrebbero formare meglio alcune figure professionali che spesso incontrano per primi i pazienti più giovani: pensiamo al dietista o al trainer all’interno delle palestre. È fondamentale che questi professionisti spieghino che, per esempio, perdere peso o smettere di fumare è importante non solo perché migliora le prestazioni, ma anche perché riduce il rischio di ammalarsi di cuore››. E, aggiunge la dottoressa Paganini, ‹‹anche gli infermieri e i ginecologi, che già hanno un ruolo importantissimo per la prevenzione dei tumori e dell’osteoporosi››. Senza dimenticare il ruolo della scuola: ‹‹Purtroppo la cultura della prevenzione in Italia manca ed è più alta in chi ha un tasso di scolarizzazione più elevato. Per questo andrebbe insegnata fin dalla scuola dell’obbligo».

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