Chi si ammala di ictus in età lavorativa, 9 volte su 10 è costretto a modificare le prospettive di lavoro, riducendo l’orario o rinunciando ad alcune o a tutte le attività professionali. Lo rivela un’ indagine di mercato condotta su oltre 500 pazienti nel Regno Unito, Spagna, Francia, Italia e Germania e resa nota dalla società farmaceutica Ipsen. Più nello specifico, le persone fra i 30 e i 44 anni sono quelle che denunciano l’impatto negativo maggiore in termini di carriera mancata. Questo perché circa 1 persona su 3 fra costoro dichiara di aver ridotto il proprio orario di lavoro e 1 su 4 di aver dovuto lasciare il lavoro del tutto a causa dell’ictus. Situazione altrettanto difficile quella denunciata dai caregivers, ovvero coloro che prestano assistenza al familiare con ictus. In Italia, il 35% dei famigliari ha dovuto assentarsi dal lavoro per prendersi cura del parente, e il 12% ha dovuto rinunciare al lavoro per più di un anno.
Quando si viene colpiti da un ictus, solo circa il 25-30% sopravvive ad un anno dall’evento. I dati indicano che l’ictus è tutt’altro che raro. Solo in Italia, sono 100 mila casi ogni anno, fra ictus ischemico ed emorragico. Inoltre, i pazienti e i loro familiari ignorano gli esiti che l’evento comporta. Circa il 30% degli italiani ha riferito che le informazioni sugli esiti del post ictus in termini clinici, come la spasticità e dunque le implicazioni correlate vengono apprese solo in corso di visite di follow-up, specie per quanto attiene il deterioramento cognitivo: una conseguenza post ictus a lungo termine. Dopo un ictus con emiplegia il 60% dei pazienti tende a evidenziare limitazioni articolari, le cosiddette joint contracture dal lato colpito entro il primo anno con viziature del polso e della mano comuni in coloro che non recuperano un uso funzionale della mano, del gomito e a livello del complesso gamba-piede. Queste viziature sono associate alla comparsa di spasticità nei primi 4 mesi. Gli esiti peggiori, come appunto la spasticità, possono essere controllati e\o migliorati solo attraverso un’adeguata e tempestiva presa in carico del paziente. Ad oggi, però – in accordo con l’indagine menzionata – solo il 18% dei pazienti che sopravvivono ad un ictus ricevono una diagnosi di spasticità. Ciò significa che la spasticità viene rilevata in circa il 19% dei casi 3 mesi dopo l’ictus e dal 17% al 38% dei casi ad 1 anno dall’evento acuto e soltanto 5 mila pazienti beneficiano del corretto trattamento. Dopo essere sopravvissuti a un ictus è importante individuare le diverse tipologie di menomazioni, le limitazioni delle attività e le disabilità in generale. Bisognerebbe valutare le risorse complessive del paziente in modo da poter individuare le modalità d‘intervento più utili e gli strumenti terapeutici più efficaci, insieme ai tempi di recupero che si profilano. Inoltre, solo un approccio pianificato permette di affrontare le problematiche di lungo periodo, come la sessualità, il ritorno al lavoro, la guida degli autoveicoli, la gestione della depressione, il recupero di una graduale autosufficienza. «Nel nostro Paese oltre 900 mila persone – precisa Nicoletta Reale, Past President dell’associazione A.L.I.Ce. Italia O.D.V. (Associazione per la lotta all’ictus cerebrale) – portano gli effetti invalidanti dell’ictus. È necessario avviare azioni per aumentare le conoscenze su questa malattia e le conseguenze correlate, oltre che sollecitare una più stretta comunicazione tra medici, gli stessi pazienti e i parenti, sapendo che la tempestività dell’intervento e il giusto trattamento possono migliorare sensibilmente la qualità della vita di chi sopravvive».
Secondo i dati a disposizione circa il 30% dei sopravvissuti a un ictus riporta danni cerebrali che comportano afasia cronica ovvero incapacità di comprendere o di esprimersi verbalmente in modo corretto. Le persone afasiche hanno difficoltà a parlare, ma riescono quasi tutte a cantare: questo è possibile perché musica e linguaggio verbale non si trovano nello stesso emisfero cerebrale. Partecipare a un coro per le persone afasiche comporta non solo benefici di natura psicologica, ma si caratterizza per una specifica valenza terapeutica. È in quest’ottica che è stato varato il progetto del “Coro degli Afasici”, fiore all’occhiello della Federazione nazionale A.L.I.Ce. Il progetto s’inquadra negli interventi di riabilitazione post ictus. Il coro degli afasici è una realtà consolidata e presente in diverse città: Cuneo, Trieste, Genova, Ravenna, Firenze, L’Aquila. Si rivolge a coloro che, avendo già realizzato un percorso riabilitativo, vogliono affrontare e migliorare i disagi emotivi collegati alle esperienze negative di isolamento e depressione. Una persona che non riesce ad articolare neppure le frasi più semplici può, se opportunamente guidata con l’esercizio, unire la propria voce a quella degli altri, anche solo sillabando. «Il Coro – spiega ancora la dottoressa Reale – rappresenta un importante e piacevole momento di socializzazione e di incontro tra le persone afasiche e i loro familiari o caregiver, perché in queste occasioni tutti possono dare voce al proprio vissuto. Con questa esperienza si rafforza l’autostima della persona che, essendo in contatto con altre che hanno problematiche simili, si sente finalmente parte di un gruppo». Jenny Burnazzi, musicista e musicoterapeuta di Ravenna, da tre anni in forze al Coro degli Afasici della città, racconta che alcuni componenti del coro riescono a pronunciare ogni parola di Bella Ciao, uno dei brani più popolari nelle sedute di gruppo, ma non riescono a pronunciare il proprio nome. La musicista racconta che ogni incontro, della durata di circa 90 minuti, si apre con l’ascolto di un brano di musica classica e poi si passa al canto. Di solito si parte con brani che sono patrimonio di tutti come Quel mazzolin di fiori, anche se Jenny Burnazzi ha provato con successo a inserire brani più recenti, come Attenti al lupo.