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di Alberto Ferrari
Da uno studio inglese la dimostrazione che si può intervenire sui corpi carotidei per ridurre l’ipertensione, le apnee notturne e i disturbi cardiaci nei pazienti resistenti ai farmaci antipertensivi. Frattanto è stato attivato l’iter che porterà alla commercializzazione di un nuovo farmaco,dopo che i ricercatori hanno individuato il vero nemico da contrastare: il recettore responsabile dell’iperattività dei corpi carotidei che causa i disturbi pressori e cardiaci

ipertensione, come noto, è forse la causa principale delle malattie invalidanti più diffuse e pericolose per la nostra civiltà del benessere. Essa provoca l’infarto, l’ictus e gravi patologie renali, tutte affezioni dagli esiti il più delle volte fatali. Organi come il cuore, il cervello e i reni si usurano facilmente per effetto della pressione eccessiva che il flusso sanguigno esercita all’interno delle arterie. Le stime dicono che, a livello mondiale, gli ipertesi accertati sono un miliardo, a cui va aggiunta una cifra pari alla metà dei senza diagnosi. Altri cinquecento milioni di individui che vivono sull’orlo di un baratro senza saperlo, per il fatto che l’ipertensione è un disturbo difficile da percepire e, quindi, da riferire al proprio medico, perché non dà sintomi. Messa così, si capisce che un rompicapo della medicina, che sprona i ricercatori a tentarle tutte pur di risolverlo, è riuscire a trattate gli ipertesi insensibili alla terapia farmacologica.

Molti dicono che l’ipertensione si può combattere ricorrendo a uno stile di vita sano, in cui si faccia molto sport e si segua un’alimentazione corretta, senza eccessi di alcol o d’altro tipo. Tutto vero, senonché l’unico metodo certo, scientificamente provato, che finora si è dimostrato largamente in grado di abbassare stabilmente i valori di pressione sistolica (la massima) e diastolica (la minima) entro la norma dei 130-80 mm/HG è la terapia farmacologica. Pertanto, quei medici che riuscissero a mantenere nei limiti i valori pressori dei farmaco-resistenti, non farebbero un regalo a un’esigua minoranza di pazienti, cosa che già di per sé andrebbe premiata con il Nobel per la Medicina, ma riuscirebbero a migliorare le aspettative di vita e di qualità della medesima di una percentuale compresa fra l’8 e il 14% del miliardo di ipertesi accertati. Più di cento di milioni di uomini e donne di tutte l’età, qualcosa come l’intera popolazione d’Italia e Regno Unito.

E proprio dal Regno Unito è giunta voce di una scoperta molto promettente. Un’équipe di ricercatori inglesi ha da poco pubblicato uno studio in cui dà atto dei risultati ottenuti a riguardo di un piccolo ma non per questo meno significativo gruppo di pazienti, sui quali sono intervenuti per la resezione di uno dei due corpi carotidei. Eliminando uno di questi piccoli noduli, situati al punto di biforcazione delle carotidi, si è avuto un improvviso e stabile abbassamento della pressione arteriosa. ‹‹Noi crediamo che il 55% di tutti gli ipertesi è tale a causa dell’iperattività dei corpi carotidei – dice il professor Julian Patron dell’Università di Bristol da noi intervistato, che, insieme ai suoi colleghi e a quelli del Bristol Heart Institute, ha preso parte alla ricerca – In base alle conclusioni del nostro studio, è sufficiente intervenire sui corpi carotidei per annullare stabilmente l’ipertensione di questi soggetti››.

A dispetto della piccola taglia, i corpi carotidei sono fondamentali per la respirazione e per mantenere efficiente l’intero sistema cardiovascolare. In caso di iperattività, i corpi carotidei mandano impulsi al cervello che costringono il cuore a lavorare di più per produrre più ossigeno. Una delle conseguenze della produzione di ossigeno in eccesso è proprio l’ipertensione. Un’altra conseguenza è lo stato d’allerta prodotto sul sistema nervoso simpatico, dal quale dipende il controllo dei cosiddetti riflessi condizionati e dei meccanismi che producono lo stress; il che, al lato pratico, si traduce in un’ ulteriore accelerazione cardiaca che favorisce l’aumento dei valori pressori.

Lo studio inglese, apparso sul prestigioso “Journal of American Cardiology”, ha preso in esame 15 pazienti, 8 donne e 7 uomini tutti resistenti ai farmaci antipertensivi per effetto dell’iperattività dei corpi carotidei, e ha dimostrato che la resezione di uno dei due corpi, oltre che fattibile e sicura, è apparsa vincente nel 55% dei casi. Il che significa che 8 pazienti su 15 hanno ricavato un beneficio permanente in termini di abbassamento della pressione di un valore medio pari a 26 mm-HG e un controllo efficace dell’iperattività del sistema nervoso simpatico.

‹‹L’ablazione dei corpi carotidei attraverso la tecnica chirurgica tradizionale, oppure mediante la tecnica di microchirurgia percutanea, ovvero a mezzo di un catetere, sono due opzioni che si sono dimostrate fattibili e sicure – precisa il professor Paton – ma non è questo il punto. I corpi carotidei svolgono delle funzioni essenziali, non sono superflui. Non possiamo pensare di eliminarli al solo scopo di migliorare la pressione sanguigna. Nel nostro studio forniamo la prova che riducendo l’impulso che governa l’iperattività dei corpi carotidei la pressione sanguigna si è abbassata in modo significativo nei pazienti finora testati. Pertanto, abbiamo bisogno di mettere a punto un nuovo farmaco capace di riportare alla calma i corpi carotidei, intervenendo sullo stimolo che li spinge a lavorare di più. Grazie a questo nuovo farmaco riusciremo a rimuovere l’iperattività anomala, salvando il corpo carotideo››.

In seguito ai test eseguiti prima sugli animali e poi sugli umani, i ricercatori inglesi hanno identificato che il recettore molecolare che provoca l’iperattività dei corpi carotidei nei ratti è presente anche nei corpi carotidei degli umani affetti da ipertensione. ‹‹Si tratta di un recettore, chiamato P2X3, – chiarisce il professor Paton –  che inibisce l’attività una particolare molecola, l’Adenosina trifosfato››. In un altro studio, pubblicato sulla rivista scientifica “Nature Medicine” quasi in contemporanea al primo, i ricercatori inglesi hanno spiegato in che modo sono intervenuti su questo recettore. In sostanza, bloccando il recettore P2X3 si è ridotta l’iperattività dei corpi carotidei, con il risultato che sia la pressione arteriosa sia l’attività basale del sistema nervoso simpatico dei ratti ipertesi si sono normalizzate. ‹‹I dati in nostro possesso – conclude il professor Paton – sono sufficienti per sostenere che il recettore P2X3 è il vero bersaglio per il controllo dell’ipertensione umana››.

Già, ma come si fa a stabilire il target dei pazienti? I ricercatori inglesi hanno messo a punto un test che permette di identificare con accuratezza i corpi carotidei che lavorano più del dovuto, partendo dal semplice riscontro dell’ipertensione. La domanda che sorge spontanea è se questo test permetterà di arruolare più pazienti per le indagini necessarie a mettere a punto il nuovo farmaco. ‹‹L’ipertensione al mondo ha raggiunto i livelli di una vera e propria pandemia – spiega Julian Paton – a cui vanno aggiunti svariati milioni di individui senza diagnosi. Del miliardo di ipertesi di cui parlano le stime, almeno il 45% è a rischio permanente di infarto, ictus e gravi malattie renali, sebbene siano sottoposti a terapia medica. Ora, noi abbiamo messo a punto un metodo per la diagnosi dell’iperattività dei corpi carotidei. Ci piacerebbe poter utilizzare questo metodo per definire il sottogruppo, nemmeno tanto piccolo, stimato intorno al 50% di tutti gli ipertesi, per il quale crediamo che sia efficace intervenire con la somministrazione del recettore antagonista del P2X3 al fine di ottenere una riduzione stabile della pressione arteriosa, una riduzione delle apnee notturne e di ritardare così le malattie cardiache conseguenti. Insomma, crediamo che il controllo dell’iperattività dei corpi carotidei darà beneficio a molti pazienti. In particolare, sarà in grado di alleviare i sintomi di apnea notturna e i disturbi cardiaci, malattie per le quali i corpi carotidei intervengono con un ruolo patologico essenziale››.

I tempi di questo nuovo farmaco? ‹‹Per come stiamo approcciando il problema, il nuovo trattamento antipertensivo richiederà ancora 15 anni di sforzi – conclude il nostro interlocutore privilegiato – Da notare, che sono già trascorsi 10 anni d’attività congiunta a opera di vari enti di ricerca. Oltre ai colleghi dell’Università di Bristol, stanno lavorando attivamente al progetto altri enti ricerca sparsi in tutto il mondo››.

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