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di Riccardo Segato

Grazie a essa il battito cardiaco si regolarizza e la pressione arteriosa scende più rapidamente; è in grado di calmare l’ansia, alleviare il dolore dopo un intervento cardiaco e dopo un infarto; inoltre, è entrata nei protocolli di riabilitazione nel post ictus, là dove si riscontrano danni transitori alla memoria, alla parola e anche al movimento. Stiamo parlando della musica, nient’altro che di “semplice” musica

Da un punto di vista adattivo la musica è sostanzialmente inutile. Il genere umano sarebbe arrivato allo stesso grado di civiltà anche senza la musica. Nel senso che la musica non soddisfa nessuno dei bisogni primari che ha spinto l’uomo a ingegnarsi per soddisfarli. Per tutelarsi dal freddo, l’uomo primitivo ha addomesticato il fuoco e sfruttato la pelle degli animali, mentre oggi la sua variante più evoluta, cioè noi, si è inventata le case riscaldate a gas metano e i pullover che indossa per ripararsi dai rigori dell’inverno devono anche piacergli in abbinamento con i pantaloni.
Un’altra verità altrettanto paradossale è che la musica è un’entità del tutto astratta, priva di potere rappresentativo formale. Ragione per cui gli struggimenti e le vivide sensazioni che attribuiamo alla musica sono un surplus di significato di origine e natura individuale. È bene ricordare che là dove si celebra una data musica come tragica, ci si sta muovendo nel terreno soggettivo delle metafore e non in quello oggettivo dei dati di fatto. L’ascolto dell’Opera non è minimamente di ostacolo per i cultori del genere a immedesimarsi nella sofferenza di un amore non corrisposto, oppure a covare gli stessi sentimenti di vendetta causati da un oltraggio subìto, come accade alla protagonista della Tosca, quantunque, come dicevamo, la musica sia una mera astrazione.
In ambito pop, un autore famoso come Mogol sembra affermare che la musica sia tutt’altro che priva di capacità rappresentativa, quando sostiene – cosa che ha fatto durante una recente intervista televisiva – che, per comporre i testi delle celeberrime canzoni firmate con Battisti, si è limitato a tradurre in versi le storie che “leggeva” nella musica del suo pigmalione compositore. Vero, purché sia chiaro che Mogol sta parlando della propria esperienza soggettiva.
Eppure si dà il caso che non esista nient’altro sulla terra in grado di sollecitare così tante parti della mente umana come la musica. Un fatto, questo, assolutamente dimostrabile scientificamente, ricorrendo alle immagini del cervello ottenute con le moderne strumentazioni diagnostiche. Durante l’ascolto, l’esecuzione strumentistica e il canto di un brano musicale, non necessariamente una sinfonia di Beethoven, si attivano così tante aree cerebrali che, al confronto, quelle di un astrofisico alle prese con una lavagna di geroglifici matematici sembrano quisquilie da “Settimana enigmistica”. La musica stimola le aree corticali responsabili del movimento, del linguaggio, dell’attenzione, della memoria e delle emozioni. Proprio per questo motivo si ricorre alla musica in chiave terapeutica per aggiustare molti degli insulti cerebrali causati dalle malattie degenerative come l’Alzheimer, oppure da eventi neurologici come l’ictus o da danni di origine traumatica. Là dove la parola e la memoria cominciano a diventare deficitarie a causa della malattia, la musica si è dimostrata un valido strumento terapeutico. Infatti, la musicoterapia è una pratica tutt’altro che secondaria nei centri di riabilitazione all’avanguardia. La figura del musicoterapista è diventata altrettanto familiare di quella del logopedista. Se compito di quest’ultimo è reimpostare i sistemi neuronali che presiedono all’uso del linguaggio e della parola, il musicoterapista mira agli stessi risultati partendo dal dato, scientificamente assodato, che l’accompagnamento musicale, anche sotto forma di canto, facilita il ripristino dell’uso del linguaggio, delle capacità mnemoniche ed è in grado di migliorare le performance motorie. Basta dare una scorsa ai tanti casi clinici descritti dal celebre neurologo Oliver Sacks nel suo “Musicofilia” per rendersene conto. Nel libro di Sacks sono esposte molte vicende di pazienti che, a causa delle lesioni subite, hanno perduto molte delle facoltà cognitive e verbali, ma si racconta pure di pazienti per i quali la musica è diventata una sequenza insopportabile di suoni cacofonici (amusia) o che, viceversa, hanno trovato nella musica l’ultimo rifugio, rispetto a tutto il resto che invece è andato offuscandosi irreparabilmente, come se fosse stato avvolto da una spessa nebbia semantica. Celebre è il caso descritto di quel paziente, Clive Wearing, «insigne musicista e musicologo inglese», che, a causa di un evento traumatico, perse completamente la memoria episodica (quella che ci permette di collegare la realtà fattuale alle esperienze emotive), ragione per cui non ricordava il proprio nome un secondo dopo averlo ripetuto. Tuttavia, messo di fronte a uno sparito sapeva leggere le note e cantare, messo di fronte alla propria orchestra era ancora in grado di dirigerla “quasi” con le stesse proprietà di quando stava bene.
Non mancano i casi di quei pazienti che si sono rivolti al celebre medico inglese naturalizzato americano perché assillati da un motivo musicale che toglieva loro il senno: «Ictus, attacchi di ischemia transitoria e aneurismi o malformazioni cerebrali possono causare allucinazioni musicali, le quali però tendono a estinguersi con l’attenuarsi della patologia o con le cure; le altre allucinazioni musicali, invece, sono per la maggior parte persistenti, sebbene con il passare degli anni possano smorzarsi un poco».
Da ricordare, che, siccome la musica viene percepita attraverso l’udito, è molto probabile che i disturbi d’orecchio, se provocati da un ascolto di musica con l’iPod e, in genere, a volume troppo alto, siano la causa di un’imperfetta e talora fastidiosa percezione distorta del suono. Un problema, questo, che sembra più che altro minacciare le giovani generazioni – ricorda Sacks – visto che il 15% dei ragazzi d’oggi presenta significative compromissioni dell’udito.
Il libro di Sacks è particolarmente illuminante anche a proposito della figura del musicoterapista. Non perché Sacks si dilunghi a tratteggiarne il profilo ideale, che, succintamente, coincide con quello di una persona diplomata al conservatorio che poi si specializza nella riabilitazione di malattie degenerative come l’Alzheimer e il Parkinson, oppure di malattie cerebrovascolari come l’ictus, oppure di insulti neurologici di causa accidentale. Ciò che distingue un musicoterapista dalla musica prodotta da un lettore di cd, e che fa la differenza in termini di successo terapeutico, è legato alla persona. Suonare, cantare o anche ascoltare musica filodiffusa sotto la guida di un musicoterapista in carne e ossa è molto più performante grazie alla presenza dei neuroni specchio. Come il bambino si specchia nella materiale neuronale della mamma durante l’apprendimento linguistico, così il paziente affetto da malattia degenerativa o postraumatica, specchiandosi nei riflessi neuronali attivati dal musicoterapista, impara più velocemente e in maniera più proficua. Ciò non significa che un musicoterapista è in grado di restituire il dono della parola a un paziente parkinsoniano. Semplicemente potrebbe limitarsi a farlo uscire dall’isolamento comunicativo in cui sembra costringerlo la malattia, garantendogli un sollievo minimo ma qualitativamente importante.
Andando oltre le intuizioni e le conoscenze di Oliver Sacks deducibili dal suo libro “Musicofilia”, uscito a stampa nel 2007, ci preme ricordare che la musica è considerata di grande giovamento anche per il sistema cardiovascolare. Diversi studi scientifici recenti hanno messo in relazione l’ascolto della musica con una reattività migliore da parte di cuore e arterie. Nello specifico la musica, a ciascuno la sua, non necessariamente Mozart o Bach per tutti, è in grado di migliorare le reazioni dei pazienti durante il test della prova da sforzo, che solitamente si esegue su tapis roulant o cyclette. È quanto sostiene uno studio americano pubblicato nel 2018, in cui si dà conto delle reazioni in termini di performance cardiovascolari di un gruppo di pazienti durante il test della prova da sforzo cardiaca. I pazienti, di origine ispanica, età media 53 anni, in maggioranza donne, sono stati divisi in due gruppi, il primo dei quali ascoltava musica latina ritmata mentre l’altro gruppo no, nessuna musica, pur indossando tutti le cuffiette dell’iPod per non dare informazioni in più agli esecutori del test circa la suddivisione random dei due gruppi. Gli esecutori erano all’oscuro anche della storia clinica dei pazienti, che pure in comune avevano malattie come diabete e obesità e condizioni cliniche come l’ipertensione. Ebbene, chi ha ascoltato musica è durato di più durante il test che, come sappiamo, si basa su uno sforzo crescente: circa 50 secondi in più come media. Il dispendio energetico invece è stato simile, così come simile è stato il tempo che ci è voluto per raggiungere la soglia massima in termini di battiti cardiaci. «I nostri risultati rinforzano l’idea che ascoltare musica durante l’attività fisica regolare renda l’organismo più facilitato a mantenere il passo, ragion per cui è auspicabile che quando i medici raccomandano di fare più attività fisica, si ricordino di aggiungere di farlo con un piacevole accompagnamento musicale» suggerisce uno dei ricercatori dell’Università di El Paso, Texas, che ha preso parte alla ricerca.
Altri benefici in cui ci imbatte nella letteratura sull’argomento è che sia le arterie sia le coronarie reagiscono positivamente, rilassandosi, durante l’ascolto, l’esecuzione musicale ma anche durante il canto. Inoltre, il cuore trae beneficio se vi è una musica “giusta” di sottofondo: il battito cardiaco si regolarizza e la pressione arteriosa scende ai valori ottimali molto più rapidamente alla fine di una performance da sforzo intenso. Da ultimo ma non per importanza, l’ascolto musicale è consigliato ai pazienti post infartuati che necessitano di tenere sotto controllo gli stati d’ansia, così come la musica allevia il dolore e l’ansia in chi deve affrontare un intervento di angioplastica oppure in chi si trova in stato di ricovero a seguito di un infarto.

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