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di Anna Pellizzone
Stimolare le connessioni del sistema nervoso nei pazienti colpiti da ictus per aiutarli a recuperare importanti funzioni come la mobilità. La ricerca è a un passo dalla commercializzazione di un piccolo apparecchio elettronico in grado di svolgere questo servizio. Il device è già stato testato su alcuni pazienti.Il prossimo step, prima dell’impiego su larga scala,è l’utilizzo di questo dispositivo di ideazione anglosassone su un campione di 150 candidati

È grande come uno smartphone e a guardarlo potrebbe essere scambiato per un comune hard disk esterno di un computer. Ma non facciamoci ingannare dalle apparenze: quello di cui parleremo in questo articolo è un nuovissimo device made in UK progettato per stimolare le connessioni del sistema nervoso nei pazienti colpiti da ictus e aiutarli così a recuperare importanti funzioni come la mobilità. Dopo un evento cardiovascolare come l’ictus, infatti, molte persone hanno una paralisi parziale delle braccia, delle gambe o del volto, tipicamente solo da un lato. Alcune – circa il 15% – recuperano spontaneamente l’uso di braccia e mani, ma altre conservano disabilità piuttosto gravi per tutto il resto delle loro vita e perdono autonomia anche in azioni quotidiane come vestirsi e lavarsi.

Quando una persona è colpita da ictus, infatti, accade molto spesso che la via principale che connette il cervello al midollo spinale s’interrompa. «Nei primati, uomo compreso, questa “strada maestra” si chiama tratto corticospinale», ci spiega il Prof. Stuart Baker, dell’Istituto di Neuroscienze presso l’Università di Newcastle e protagonista dell’invenzione, «ed è alla base della nostra capacità di fare movimenti accurati e precisi, soprattutto della mano».

Un evento cardiovascolare come l’ictus interrompe il rifornimento di sangue a una parte del cervello, causando un danneggiamento o una perdita di un segmento del circuito neurale. «Il tessuto cerebrale – continua il Professore – una volta perso, è perso per sempre. Ma, tipicamente, col passare delle settimane e dei mesi, c’è una ripresa e alcune capacità tornano. E questo accade unicamente perché i sistemi residui si riconfigurano, per ripristinare il movimento».

Un po’ come quando una strada principale si blocca e cerchiamo di arrivare a destinazione ricorrendo a vie secondarie, così anche quando l’interruzione riguarda il sistema nervoso, l’individuo – in alcuni casi – sviluppa naturalmente (rinforzandoli) dei percorsi alternativi, attraverso un tratto che gli scienziati ritengono più primitivo e che è noto come fascio reticolo spinale. Si pensa che questo tratto «sia coinvolto in movimenti più generici come raggiungere gli oggetti, camminare o mantenere l’equilibrio. Ma recentemente nel nostro laboratorio abbiamo scoperto che può avere un ruolo anche nella funzionalità della mano, persino nei piccoli movimenti. E siccome tipicamente un ictus colpisce il tratto corticospinale, compromettendo la capacità motoria, il recupero può allora avvenire attraverso l’uso dei tratti reticolo-spinali intatti».

Ma se il problema è risolvibile grazie alla previdenza di madre natura, perché dopo un ictus alcune persone rimangono paralizzate? Prima di tutto la ragione sta nel fatto che i “circuiti” reticolo-spinali, consentono un recupero parziale. Spesso, infatti, si assiste a un recupero sbilanciato, con più connessioni ai flessori (i muscoli che chiudono la mano) rispetto a quelle agli estensori (i muscoli che la aprono). Una condizione fortemente invalidante per i pazienti. Ed è proprio a questo punto che lo sviluppo della nuova tecnologia dell’Università di Newcastle entra in gioco in tutta la sua importanza, anche se ci serve ancora un’ultima premessa teorica.

C’è un principio ben noto nelle neuroscienze, che si chiama STDP – acronimo di “Spike Tming Dependent Plasticity” – che, semplificando, potrebbe essere tradotto con la capacità delle cellule nervose di intensificare o indebolire la propria comunicazione a seconda delle tempistiche e dell’ordine in cui vengono stimolate. L’idea è che se abbiamo due cellule A e B – e A si collega a B nella trasmissione dell’impulso nervoso – allora la forza della loro connessione può essere modificata a seconda del momento in cui vengono attivate. Se A si attiva prima di B ripetutamente, la connessione si rafforza, al contrario se mediamente B si attiva subito prima di A, la connessione si indebolisce.

Ed ecco che arriviamo alla tecnologia: «abbiamo trovato un modo per attivare le cellule reticolo-spinali», racconta Baker. «Abbiamo scoperto, nelle scimmie, che uno schiocco, un click piuttosto rumoroso può attivare queste cellule in modo potente. E sappiamo anche che possiamo attivare gli input a queste cellule con uno shock elettrico a un nervo del braccio. Quindi il nostro device accomuna questi due stimoli: stimoliamo il nervo del braccio con uno shock elettrico e poi subito dopo produciamo un click. In questo modo soddisfiamo completamente i requisiti per sfruttare il principio di spike timing dependent plasticity: l’input è attivato subito prima dell’output, quindi la connessione si rinforza. Se procedessimo al contrario (prima il click e poi lo shock elettrico) la connessione si indebolirebbe. Seguendo questo approccio, in soggetti umani sani, siamo stati capaci di modificare la forza di un riflesso che crediamo usi il sistema reticolo-spinale».

Dietro a questa piccola scatola di plastica – che contiene dei circuiti sviluppati per emettere sia dei click che arrivano a un auricolare, sia dei piccoli shock elettrici che arrivano a degli elettrodi applicati sulla pelle in corrispondenza di un nervo – ci sono anni di studio e un intreccio di competenze, da quelle dei neuroscienziati a quelle degli ingegneri. «Le persone possono indossarli per molte ore, ogni giorno; questo significa che l’accoppiamento dello stimolo dovrebbe essere molto più efficace, dal momento che possiamo rilasciare più stimoli di quanto non sia possibile in un laboratorio o in un contesto clinico».

Per mettere a punto questa tecnologia, i ricercatori hanno seguito un metodo rigoroso. «I soggetti sani venivano in laboratorio verso le 9 del mattino. Li facevamo accomodare in un apparecchio robotico che muoveva velocemente il loro braccio e misuravamo così i loro riflessi. Quindi, applicavamo loro il device che rilascia i click e gli shock e a quel punto loro uscivano dal laboratorio e svolgevano le loro normali attività quotidiane. Verso le 16 tornavano in laboratorio, il device veniva rimosso e i riflessi venivano nuovamente misurati dall’apparecchio robotico. Come dicevo prima, a seconda di come i click e gli shock venivano accoppiati, potevamo potenziare o depotenziare i loro riflessi».

Questo piccolo device potrebbe davvero rivoluzionare la cura dei pazienti colpiti da ictus. «Abbiamo sviluppato una nuova versione dell’apparecchio che può essere utilizzata per trial clinici e la stiamo testando in 150 pazienti che hanno avuto un ictus presso l’Istituto di Neuroscienze di Calcutta (India), con cui abbiamo una collaborazione». Se anche questo passaggio sarà proficuo, il device potrebbe essere commercializzato ed essere distribuito ai pazienti colpiti da questo tipo di eventi cerebrovascolari.

Quando in Italia? «Se il nuovo studio darà i frutti sperati, vorrei sperare che il device potrebbe essere in commercio già alla fine di quest’anno o, al più tardi, all’inizio di quello venturo. Abbiamo già preso contatti con un’azienda per la produzione industriale, alla quale affideremo la commessa non appena riceveremo il nulla osta da parte del dipartimento che deve approvarlo››.

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