Stigma da Covid-19
«Qualunque sia la malattia fisica, genetica o mentale, esiste sempre un tratto comune che si chiama stigma sociale». E rieccoci a parlare di stigma, sollecitati questa volta dalle paure che la pandemia da Covid-19 sta amplificando. Ne parliamo con l’aiuto di Sara Bosatra. Sara Bosatra è psicologa e psicoterapeuta. Esercita la libera professione fra Alessandria e Pavia. Conduce laboratori di danza-movimento-terapia con utenza psichiatrica in diverse comunità terapeutiche. È socio fondatore dell’associazione Bussole-LGBT che si occupa di corretta informazione, formazione, ricerca scientifica e attività cliniche sulle tematiche delle identità sessuali. Insomma, è un’esperta di tutto ciò che, normalmente, porta le persone ad essere messe ai margini della società favorendone l’autoreclusione.
«Per citare i dati dovremmo entrare nel merito delle specifiche malattie, ma in generale per ciascuna patologia esiste un’ampia ricerca scientifica sullo stigma sociale, da cui risulta evidente che molte persone che convivono con una malattia si sentono isolate e discriminate, a volte con conseguenze psicofisiche tali da comportare un peggioramento delle condizioni di salute. Uno degli obiettivi di diverse realtà associative è promuovere una corretta informazione sulle malattie e favorire la conoscenza diretta delle persone, perché è il contatto con le diversità che permette di superare i pregiudizi, conoscere davvero le persone e comprendere l’esperienza della malattia con maggiore empatia».
Perché avere il cancro o essere cardiopatico dando segni di malessere e sofferenza fa sì che il resto della popolazione tenda a isolare queste persone, favorendo la loro solitudine forzata, cosa che tra l’altro contribuisce a peggiorare il quadro clinico?
«Ciò si può verificare perché sono socialmente diffusi stereotipi focalizzati sugli aspetti negativi delle diverse condizioni di malattia: questo porta molte persone a provare emozioni negative nei confronti di chi convive con una malattia, come paura, disgusto o vergogna. Tali vissuti favoriscono tendenzialmente comportamenti di evitamento o riduzione immotivata di responsabilità, o ancora pregiudizi estremamente negativi sullo stile di vita della persona. Spesso le persone che convivono con una malattia riferiscono di avere difficoltà a mantenere le amicizie o a stabilirne di nuove dal momento in cui diventa nota la loro diagnosi. L’isolamento è dunque senza dubbio un fattore di stress e sofferenza che abbassa la qualità della vita, per questo una buona rete familiare e sociale può fare una enorme differenza per il benessere personale. Molte pazienti hanno denunciato di aver subito lo stesso atteggiamento anche per il covid».
Secondo lei ci sono differenze fra le malattie, oppure lo stigma colpisce indiscriminatamente?
«Lo stigma sociale colpisce tutto ciò che è percepito come diverso, sconosciuto, potenzialmente pericoloso. Certamente, ci sono alcune differenze rispetto a quale emozione negativa viene attivata in un osservatore: potrebbe essere disgusto per segni evidenti nell’aspetto esteriore; o forte giudizio negativo per un quadro clinico forse evitabile in passato o migliorabile nel presente se solo la persona avesse avuto uno stile di vita diverso; o, come nel caso del COVID-19, la paura del contagio. I primi bersagli dello stigma sociale per il Coronavirus sono stati migliaia di cinesi che vivono in Italia, seguiti dai lombardi e veneti, fino ad arrivare alle persone contagiate e agli operatori sanitari che rientravano nei loro condomini dopo il lavoro nei reparti Covid. Abbiamo tristemente ascoltato e letto notizie di gravi episodi di discriminazione verso persone accusate di essere potenziali untori. La paura di un nemico invisibile ha purtroppo sollecitato forti angosce irrazionali, portando le persone meno capaci di regolare le proprie emozioni ad attivare le difese psicologiche più primitive di chiusura e diffidenza dell’altro in quanto potenziale nemico. Qualunque sia la malattia che consideriamo, lo stigma può essere smascherato e superato imparando a fare i conti con le eventuali emozioni negative provate che, ci tengo a specificare, ci comunicano non che l’altro è una minaccia, ma che noi ci sentiamo minacciati, dunque è il caso di capire se i nostri timori sono reali o se sono ombre su cui è importante fare luce».
E perché colpisce? Che cosa spaventa della malattia, la sua contagiosità anche quando essa non è assolutamente virale?
«Lo stigma si basa su un pregiudizio, ossia una iper-semplificazione che di per sé ha una funzione protettiva: ci protegge da ciò che non conosciamo perché potrebbe essere pericoloso. Si tratta di una difesa primitiva, a cui però è importante che segua una valutazione realistica della minaccia percepita: è davvero pericoloso? Se sì, lo è sempre o in condizioni specifiche? Quali sono i rischi? Ci sono accorgimenti che possono garantire la mia sicurezza? Queste sono solo alcune domande che permettono di non fermarsi al pregiudizio, ma di interagire in maniera più consapevole con i fenomeni che accadono intorno a noi. Fermarsi alla prima reazione emotiva significa privarsi della possibilità di conoscere in modo più verosimile e approfondito la realtà, di regolare le emozioni e di dare una risposta più consapevole e strutturata rispetto a una prima reazione istintuale difensiva. Tutto ciò richiede un processo complesso di autoregolazione che non tutti sono disposti a fare, per questo il pregiudizio è così diffuso e tendenzialmente molto aggressivo e discriminatorio. La buona notizia è che il pregiudizio si può contrastare con la realtà, con la corretta informazione sulle malattie e con la conoscenza diretta delle persone che ci convivono. A questo proposito resta un evergreen l’ipotesi del contatto coniata da Gordon Allport (1954). Secondo il noto psicologo statunitense, la conoscenza diretta tra gruppi diversi è ciò che riduce, fino a disconfermare, gli stereotipi e i pregiudizi, grazie alla conoscenza reciproca e alla familiarità. Per concludere, vorrei fare un riferimento alla recente dichiarazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità volta a contrastare lo stigma sociale al tempo del Coronavirus, per “alimentare una solidarietà collettiva e diffondere informazioni corrette”, che personalmente ritengo applicabili a tutte le malattie. Per l’OMS, lo stigma si riduce correggendo falsi miti e stereotipi, dando importanza alla prevenzione, alla diagnosi precoce e alla cura. Inoltre, è necessario condividere racconti che generano empatia e storie che umanizzano le difficoltà delle persone vittima della malattia. Infine, bisogna incoraggiare tutti coloro che sono impegnati nella risposta all’epidemia (operatori sanitari, autorità, volontari) e, ultimo ma non per importanza, scegliere sempre le parole con attenzione».