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di Elisabetta Bramerio

Qual è l’incidenza di una sana socialità per il cuore? Se lo sono chiesti da ultimi alcuni ricercatori americani, che hanno monitorato per circa 11 anni un vasto gruppo di donne, allo scopo di isolare dal mucchio dei fattori che agiscono sul benessere psicofisico soltanto quelli relativi alla percezione della socialità. Risultato, una buona relazione con gli altri fa bene a cuore e arterie

Avere una buona vita sociale, basata su solidi rapporti di relazione, è salutare per il benessere di cuore e arterie, specie per le donne d’età compresa fra 50 e 79 anni. È quanto sostiene uno studio, apparso nel febbraio 2019 sulla rivista scientifica «Menopause», che ha preso in esame oltre 90 mila donne con le surriferite caratteristiche anagrafiche, tenendole sotto osservazione quasi 11 anni. L’età di queste donne non è casuale. Coincide con l’inizio della menopausa e si spinge ben oltre l’inizio della terza età (65 anni). Sono gli anni in cui l’incidenza delle malattie cardiovascolari nel gentil sesso cresce di parecchio, fino a tallonare il primato riscontrabile tra gli uomini. Negli Stati Uniti, Paese in cui è stato fatto lo studio, le donne cardiopatiche dopo i 50 anni sono il 35,9%, un valore di poco inferiore al 37,4% degli uomini. Va precisato che sotto inchiesta, condotta attraverso questionari ad hoc, erano le condizioni di vita sociale percepita (“perceived social support”) comprendenti una gamma piuttosto variegata dei rapporti umani.
Si è chiesto conto dei rapporti affettivi (con familiari e partner), di quelli amicali (di lunga data), di quelli emotivi (persone con cui trovarsi per bere qualcosa o per fare altro di divertente), di quelli ricreativi (persone con cui condividere un film, una pièce teatrale o altro di culturalmente stimolante), di quelli solidaristici (qualcuno che dà una mano in caso di bisogno) per finire con quelli che migliorano l’interazione sociale (occasioni che favoriscono nuove conoscenze).
Nell’approccio ai rapporti sociali, i ricercatori fanno distinzione fra rapporti strutturati e funzionali. I primi prospettano «il numero di legami sui quali ogni persona può contare – sostiene Nancy Freeborne, prima autrice dello studio in questione – per esempio, se la mia famiglia è composta di 15 membri e le mie amicizie più solide si estendono a una ventina di persone, significa che, verosimilmente, ciascuno di questi 35 individui è disponibile a relazionarsi con me in caso ne senta la necessità».
Funzionali, invece, sono quei rapporti riferibili alla percezione che ciascuno di noi ha a riguardo delle persone che possono venirci in soccorso in casi molto particolari e specifici. Della cerchia dei 35 «magari solo due persone sanno ascoltarci per un sfogo che serve a farci sbollire un po’ di rabbia oppure a mitigare altrettanta ansia, perciò so che su queste due persone posso contare per avere un confronto quando ho necessità di affrontare delle questioni emotive».
Per estrapolare e misurare la sola incidenza dei rapporti sociali, i ricercatori hanno dovuto azzerare l’apporto dei fattori classici di rischio cardiovascolare. Infatti, abitudini proprie dello stile di vita come tabagismo e sedentarietà, fattori predisponenti come obesità, ipertensione, diabete etc., avendo un peso rilevante di per sé sul quadro clinico di ogni paziente, andavano messi in condizioni di non compromettere il dato puro delle reazioni soggettive alla socialità.
Tra i fattori demografici, c’era da dare il giusto peso a dati quali l’età, il titolo di studio e il reddito familiare. Riguardo a quest’ultimo, è stata fatta una classificazione fra donne appartenenti a nuclei familiari a basso reddito (meno di 10 mila dollari annui) e ad alto reddito (più di 75 mila), ipotizzando una differente incidenza dei soldi sui problemi cardiovascolari. «A dire il vero, il reddito non è stata una delle nostre ipotesi di ricerca. Personalmente non sono in grado di dire quanto il reddito incida sulla salute di una persona e segnatamente su quella cardiovascolare. Potrebbero esserci altre ricerche interessate a questa valutazione. Credo in generale che le persone benestanti abbiano maggiori risorse finanziarie per fare fronte ai problemi di salute, così come a seguire un regime alimentare appropriato e a iscriversi in una palestra dove poter fare attività fisica con regolarità, tutte cose che, come sappiamo, rientrano fra i comportamenti protettivi per cuore e arterie».
Da notare che, delle oltre 90 mila donne tenute sotto osservazione, 17.351 erano affette da malattia cardiovascolare al momento dell’arruolamento nello studio, mentre 73.421 non ne presentavano nessuna. Dopo aver annullato i fattori potenziali di confusione, i ricercatori americani hanno concluso che, tra le pazienti, chi ha manifestato buoni rapporti sociali si è aiutata ad allontanare lo spettro della mortalità cardiovascolare del 20% rispetto a chi ha denunciato carenze di rapporti. Parallelamente, là dove i rapporti sociali sono stati percepiti come determinanti, la presenza di malattie coronariche e cardiovascolari sono risultate trascurabili. Solo un leggero miglioramento grazie ai buoni uffici dei rapporti sociali si è riscontrato, invece, nel decremento della mortalità per tutte le cause. «Proprio come altri studi prima del nostro, il nostro lavoro ha mostrato che la percezione di rapporti sociali ben strutturati ha un’influenza positiva sulla salute. La mia convinzione, condivisa anche da altri ricercatori, è che poter contare su una rete di risorse fatta di amici pronti a intervenire in caso di aiuto, è utile a tenere sotto controllo gli ormoni dello stress, da cui dipende la protezione contro le malattie cardiovascolari. Il che, pur essendo facilmente intuibile, è un dato difficile da dimostrare scientificamente».
Lo studio della dottoressa Freeborne è basato su risposte a questionari specifici raccolte durante gli anni Novanta. La principale differenza rispetto ai nostri giorni è che, in quegli anni, non esistevano i social network, croce e delizia delle interazioni sociali. Dovendo attualizzare le risposte al giorno d’oggi, in cui il tempo e le risorse emotive dedicati alle relazioni virtuali su Facebook, Twitter e Istagram è parecchio, qual è il suggerimento per tutti? «Abbiamo esaminato l’ampio database di donne degli anni Novanta perché, avendo lavorato a quel progetto di ricerca, per me e la mia équipe è stato facile accedervi. La mancanza di dati sui social media è sicuramente un elemento che rende quei dati obsoleti rispetto a oggi. Tuttavia, altre nuove ricerche ci mostrano che l’influenza dei social media sui rapporti sociali è mista: alcune persone trovano supporti online – mi riferisco a chi accede a gruppi creati apposta per confrontarsi sulla maniera migliore di affrontare una data malattia – mentre alcuni ricercatori stanno evidenziando che le persone che hanno solo supporti online vivono una condizione di profonda solitudine. Il nostro lavoro mostra quindi che è importante avere la possibilità di contare su più persone per chiedere aiuto attingendo dalla rete di supporti che ci si è creati anzitempo. D’altra parte è difficile pensare di poter contare su amici di Facebook la cui interazione si limita a un semplice “like” a commento della pubblicazione di una nostra foto».
Rispetto a trent’anni fa non è cambiato solo il nostro rapporto con il mondo virtuale. I continui progressi della medicina hanno allungato la vita per tutti. Se come dicono, grazie alle cure migliori, a una qualità della vita più attenta, guadagniamo due anni di vita per ogni decade, come si è evoluta la salute cardiovascolare delle donne da allora rispetto a oggi? «Stiamo assistendo a un calo di malattie cardiovascolari in questi anni. Molti dei miglioramenti sono dovuti a una pressione arteriosa e a dei valori di colesterolo più controllati grazie ai farmaci. Forse anche i rapporti sociali hanno influenza su questo miglioramento, quantunque non sia facile dimostrarlo. Mi auguro che in futuro riusciremo a farlo».

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